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Giovanni Paolo II, 1978-2005. L’ultimo 
            papa antimoderno 
            La sua era una Chiesa di santi contro le potenze del male: prima il 
            comunismo sovietico, e poi la civiltà del denaro, del sesso, della 
            “libertà che fa schiavi”. Il bilancio di uno storico del papato, 
            Giovanni Maria Vian  | 
           
         
        
       
      ROMA, 3 aprile 2005 – È stato l’ultimo 
      papa antimoderno. Modernissimo nello stile, lui così padrone della ribalta 
      mediatica e dei suoi linguaggi. Ma nemico irriducibile dello spirito del 
      tempo. Che era per lui tempo d’apocalisse, parola che vuol dire 
      rivelazione. Nell’Anno Santo del 2000, in quel grande Giubileo tutto di 
      sua invenzione, egli mise in scena tra Fatima e il Colosseo proprio il 
      dramma cosmico che voleva svelare. Quello della moderna Babilonia che 
      perseguita i martiri cristiani. Con lui, papa martirizzato ma vivo, alla 
      testa della schiera dei santi.  
       
      Mai nessun papa ha canonizzato tanti santi e beati come Giovanni Paolo II. 
      Perché queste erano le sue legioni. Dopo tre secoli di liberalismo, di 
      illuminismo, di comunismo, di capitalismo, tutti ad assediare la Chiesa, 
      papa Karol Wojtyla s’era convinto che per resistere e contrattaccare ci 
      volevano degli eroi, in cielo e sulla terra. Non quei teologi e vescovi 
      accomodanti con le mode. Ma cristiani forti e pugnaci. Che davanti 
      all’avversario non si inginocchiano. Lo sfidano.  
       
      Eppure, quando il 16 ottobre 1978 l’arcivescovo di Cracovia fu eletto alla 
      cattedra di Pietro, a lanciarne la candidatura erano stati proprio i 
      cardinali dei paesi benestanti: tedeschi, olandesi, nordamericani. Il 
      nuovo papa polacco doveva essere il cuneo conficcato nell’impero 
      sovietico. Ma avevano sottovalutato, i suoi grandi elettori, che le 
      critiche di Wojtyla al comunismo erano un derivato della sua più generale 
      condanna di un Occidente senza più morale né fede, adoratore del profitto, 
      schiavo dei consumi. Il Wojtyla antiborghese era molto più roccioso del 
      Wojtyla anticomunista. Il comunismo, per lui, era solo il deprecabile 
      sottoprodotto di un male più radicale. Il mal d’Occidente.  
       
      Per capirlo, bastava rileggere i sermoni di quaresima che l’allora 
      arcivescovo di Cracovia aveva predicato in Vaticano tre anni prima d’esser 
      fatto papa. Ma, all’epoca, tutto si giocava come se l’unico nemico della 
      Chiesa e del mondo libero fosse ad est o comunque colorato di rosso. 
      Giovanni Paolo II era il papa giusto per combattere la santa battaglia.
       
       
      Che infatti combatté e vinse. Ma senza esultare e senza rivendicare alcun 
      merito. Disse dopo il crollo del Muro di Berlino: "Il comunismo è caduto 
      da solo, in conseguenza dei suoi errori ed abusi". E cadendo aveva messo a 
      nudo il vero, grande nemico. L’impero globale. Affamatore dei poveri. 
      Devastatore della fede. Nelle sue encicliche sociali, Giovanni Paolo II 
      non riconobbe mai al capitalismo una positività nativa. Lasciato alla sua 
      natura, esso restava per lui irrimediabilmente malvagio e selvaggio. Per 
      addomesticarlo e renderlo accettabile alla Chiesa, diceva, niente c’era di 
      meglio se non riprendere "le cose buone realizzate dal comunismo: la lotta 
      contro la disoccupazione, la cura dei poveri".  
       
      Ma il capitalismo non aveva di suo e di buono il culto della libertà, così 
      cara alla Chiesa? Sì e no, rispondeva papa Wojtyla. Perché la libertà vale 
      solo se "educata", diceva. E soltanto la Chiesa, aggiungeva, ha ricevuto 
      dall’alto la capacità d’educare a una libertà buona e vera.
      Era il giugno del 1991 quando Giovanni Paolo II tornò per la quarta volta 
      nella sua Polonia. Il Muro era crollato, l’impero sovietico era a pezzi. 
      Ma il papa rifiutò di far festa. Anzi, non era mai apparso così iracondo, 
      con i suoi compatrioti. Parlò più volte a braccio e da quelle parole non 
      scritte, non passate al vaglio della diplomazia, fece zampillare i suoi 
      più genuini pensieri. Come questi, trascritti da un fuori testo a 
      Wloclawec:  
       
      "Il cedimento al desiderio, al sesso, al consumo: questo è l’europeismo 
      che accreditano taluni sostenitori del nostro dovere d’entrare in Europa. 
      Ma noi non dobbiamo diventare parte di questa Europa. L’Europa l’abbiamo 
      creata noi, con molta più forza di quelli che pretendono l’esclusiva 
      dell’europeismo. Qual è il loro criterio? La libertà. Ma quale libertà? 
      Quella di togliere la vita al bambino non nato? Fratelli e sorelle, io 
      protesto contro questa concezione dell’Europa che si sostiene in 
      Occidente. E proprio in questa terra di martiri questo deve essere gridato 
      forte. L’Europa attende una redenzione. Il mondo ha bisogno di un’Europa 
      redenta".  
       
      La Polonia cattolica fu la grande delusione del primo papa polacco della 
      storia. Perché liberata dal giogo comunista cadde subito preda del mal 
      d’Occidente, di una "libertà che fa schiavi". Giovanni Paolo II non ripose 
      mai nella democrazia una fiducia senza riserve. Al parlamento italiano, il 
      14 novembre 2002, disse che “se non esiste nessuna verità ultima che guidi 
      e orienti l’azione politica, una democrazia senza valori si converte 
      facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo”. Nell’arco della sua 
      vita gli capitò di vivere in un regime di democrazia solo dopo essere 
      stato fatto papa, in Italia. Ma per subito sperimentarne la temuta 
      tirannide, con il varo nel 1981 di una legge sull’aborto tra le più 
      permissive al mondo.  
       
      Le leggi sull’aborto, nella visione di papa Wojtyla, erano molto più che 
      un incidente ordinario. Erano il nuovo olocausto della fine del Novecento. 
      Ed era proprio questo "programmato cimitero dei non nati" a rafforzare ai 
      suoi occhi il discredito della democrazia. Chiedeva: "Può esistere 
      un’istanza umana, un parlamento, che abbia il diritto di legalizzare 
      l’uccisione di un essere umano innocente e indifeso?".  
       
      E la sua risposta era un no tondo. Nel 1995, nell’enciclica “Evangelium 
      Vitae”, arrivò a reclamare la pubblica disubbidienza a Cesare, in nome di 
      Dio: "Quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia, cessa, per 
      ciò stesso, di essere una vera legge civile, cioè moralmente obbligante"; 
      è "del tutto priva di autentica validità giuridica". Giovanni Paolo II 
      intimò più volte ai suoi fedeli, come fossero i martiri dei primi secoli, 
      di non sacrificare al moderno impero del male.  
       
      Il martellare senza posa sull’aborto, sulla famiglia e sul sesso non era 
      una sua "personale ossessione", né tanto meno il "contraccolpo di 
      un’infanzia infelice", come alcuni suoi biografi hanno ipotizzato. 
      L’incessante predicazione di Giovanni Paolo II su quei temi era del tutto 
      coerente con la sua complessiva visione del mondo. Il mal d’Occidente 
      raggiungeva il suo acme, ad avviso del papa, proprio quando pretendeva di 
      violare quel sancta sanctorum che è la vita di ciascuna creatura umana, 
      dal suo nascere al suo morire.  
       
      Papa Wojtyla era consapevole con questo di mettersi in urto con i governi, 
      anche i più democratici. "I potenti di questo mondo non sempre guardano 
      bene un papa come me", disse un giorno. Anche in materia di pace e guerra 
      si mosse quasi sempre controcorrente. Contestò fino all’ultimo, nel 
      1990-91, che si combattesse la guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam 
      Hussein, anche a costo di trovarsi in disaccordo con l’intero Occidente, 
      con gran parte dei governi arabi e persino con i vescovi dei paesi 
      cattolici, Italia compresa. Ma per la Bosnia fece l’opposto, reclamò che 
      l’Occidente intervenisse a "disarmare l’aggressore" e a imporre una 
      tregua. Durante l’interminabile conflitto tra Israele e i palestinesi 
      invocò inascoltato che nell’assetto di pace fosse riconosciuto uno statuto 
      internazionale per Gerusalemme e i Luoghi Santi. Dopo l’attacco 
      terroristico dell’11 settembre 2001 diede un tacito assenso al 
      contrattacco in Afghanistan. Ma si batté strenuamente contro la guerra 
      angloamericana in Iraq. Salvo poi chiamare “costruttori di pace” i soldati 
      occidentali rimasti ad aiutare la nascita della democrazia in quel paese.
       
       
      Giovanni Paolo II negò sempre d’essere pacifista per principio. E lo 
      dimostrò con i fatti. Di volta in volta giudicava se una guerra fosse 
      "giusta" o no. Anche qui in linea con l’idea che appartiene alla Chiesa la 
      sapienza di "educare" al retto uso della libertà e quindi alla pace. 
      Mentre il mondo, quando fa apostasia dalla Chiesa e da Dio, può solo 
      cadere preda della barbarie.  
       
      Niente però eguagliò in potenza di fuoco la battaglia che papa Wojtyla 
      combatté sul tema della natalità e dei programmi mirati a frenarla. Su 
      questo terreno, a differenza che nel campo della morale bellica, egli non 
      ammetteva eccezioni: nessun aborto, nessuna uccisione di ogni nuovo 
      concepito potevano essere giudicati leciti, mai. Il momento culminante di 
      questa battaglia fu al Cairo, nel settembre del 1994, alla Conferenza 
      internazionale per la popolazione e lo sviluppo indetta dall’Onu.  
       
      Dove dell’aborto non c’era neanche la parola, in nessuno dei documenti in 
      esame. C’era invece frequentissima un’altra formula: "sanità 
      riproduttiva". Ebbene, prima il papa smascherò questa formula: "tutti 
      sanno che include il libero aborto". E poi talmente martellò la sua 
      protesta, prima con le cancellerie di tutto il mondo, poi con i 
      responsabili dei programmi antinatalisti dell’Onu, poi ancora in una 
      burrascosa udienza con l’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, 
      che l’intera Conferenza del Cairo ne fu sconvolta. Il papa fu fisicamente 
      assente, ma tutto ruotò su di lui. Lui da solo contro il resto del mondo. 
      Sulla carta la Conferenza si chiuse senza un vincitore. Ma nei fatti 
      Giovanni Paolo II aveva sfidato dal suo pulpito l’Occidente, aveva 
      chiamato le cose col loro nome vero e aveva obbligato il mondo a 
      riflettere sul bene e sul male, sul giusto e l’ingiusto, sul diritto o no 
      a vivere di ogni nuovo essere umano, fin dal primissimo istante.  
       
      In questo Giovanni Paolo II fu sicuramente un papa antimoderno. Avversario 
      integrale di quella modernità tecnocratica che non vuole solo interpretare 
      l’uomo, ma decidere su di esso, e trasformarlo, e appropriarsi della sua 
      stessa generazione. La storia futura dirà se questo papa è stato uno 
      sconfitto. O un profeta. 
      
        
        
          
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      Quello che di lui passerà alla storia 
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      Intervista con Giovanni Maria Vian  
       
      Giovanni Maria Vian insegna filologia patristica all’università di Roma La 
      Sapienza, è esperto di storia dei papi ed è membro del Pontificio Comitato 
      di Scienze Storiche. Ha scritto per l’Enciclopedia Italiana le voci su 
      Paolo VI e, quando era ancora in vita, Giovanni Paolo II. 
      D. – Professor Vian, che cosa di questo papa passerà alla storia?  
      
       
      R. – “Anzitutto la visibilità. Papa Wojtyla la perseguì in tutto il mondo. 
      Sconfinando a volte in una spettacolarizzazione effimera, ma ottenendo in 
      questa maniera ascolto per la Chiesa cattolica e per l’annuncio di Cristo 
      in uno scenario globale frastornato da mille messaggi. E poi il consenso 
      planetario che avvolse la sua figura e la sua azione politica. Anche al di 
      là dei suoi meriti effettivi”.  
       
      D. – Intende dire che non fu lui ad abbattere l’impero sovietico?  
       
      R. – “Non solo lui, perché nella caduta dei regimi comunisti europei le 
      circostanze storiche gli furono favorevoli. Provvidenzialmente, 
      nell’ottica del pontefice. Giovanni Paolo II sottopose il comunismo a 
      critica serrata, specie nella prima parte del pontificato. Resta questa 
      infatti la motivazione più probabile dell’attentato, mai chiarito, che nel 
      1981 lo ridusse in fin di vita. Ma il papa slavo attaccò sempre con forza 
      anche un altro avversario, che gli appariva forse più minaccioso: il 
      materialismo pratico diffuso dall’Occidente, con la divisione ingiusta del 
      mondo tra poveri e ricchi. E seppe condurre un’appassionata ed energica 
      predicazione in favore della pace e in difesa della vita umana, in 
      perfetta continuità con i suoi predecessori”.  
       
      D. – Ma non fu anche papa di dialogo, oltre che d’invettiva?  
       
      R. – “Certo. Di dialogo con le religioni non cristiane, la vera 
      innovazione del pontificato. Anche se incontri come quelli di Assisi 
      ebbero sì grande impatto mediatico, ma hanno poi ottenuto scarsi risultati 
      e lasciato nodi irrisolti. Alcune tendenze relativiste, anche in seno alla 
      Chiesa cattolica, hanno infatti restituito attualità alla questione 
      teologica del rapporto tra l’unicità della salvezza portata da Cristo e 
      gli elementi di verità presenti nelle altre religioni. In un’atmosfera 
      culturale che in Europa è caratterizzata da un indifferentismo e un 
      laicismo aggressivo sempre più dilaganti. Mentre in diversi paesi, 
      soprattutto asiatici e africani, intolleranze e fondamentalismi non 
      consentono la libertà religiosa e rendono molto difficile la vita dei 
      cattolici e dei cristiani, fino a metterne in pericolo la sopravvivenza”.
       
       
      D. – E con gli ebrei?  
       
      R. – “In direzione dell’ebraismo fece passi importanti. Una parte del 
      mondo ebraico e altri osservatori continuarono però a pensare che questo 
      atteggiamento fosse motivato soprattutto da ragioni personali e politiche. Wojtyla era ben conscio di appartenere a un popolo cattolico, quello 
      polacco, tra i più ostili all’ebraismo, e forse proprio questa tragica 
      consapevolezza, unita alla sua storia di testimone della Shoah, fu 
      all’origine della sua volontà di dialogo, tenace e ostinata, da alcuni 
      considerata troppo accentuata. Ma che ha finito per rimescolare le 
      posizioni nel variegato mondo ebraico, soprattutto dopo il viaggio del 
      papa in Israele, e potrebbe portare a nuovi sviluppi nei rapporti tra 
      ebrei e cattolici”.  
       
      D. – In quanto polacco Giovanni Paolo II ha rotto con una tradizione di 
      quasi cinque secoli di papi italiani. Ma quali altre novità ha portato nel 
      governo della Chiesa?  
       
      R. – “Nel governo ordinario nessuna, anche perché questo non fu al centro 
      dei suoi interessi. Così in Italia, dove delegò tutto alla conferenza 
      episcopale. Ma da altri punti di vista novità e rotture ci sono state. 
      Come nella valutazione positiva della donna, da lui accentuata. O 
      nell’esporre la sua persona al pubblico sguardo, fino alle vacanze in 
      montagna con portavoce e giornalisti al seguito. Con una scelta di 
      trasparenza durante le sue malattie che ha avuto qualche aspetto positivo, 
      ma ha sacrificato la riservatezza a cui ogni essere umano sofferente 
      dovrebbe avere diritto”.  
       
      D. – E gli altri punti di rottura?  
       
      R. – “Giovanni Paolo II ha trascurato la tradizione liturgica, musicale e 
      artistica degli ultimi secoli, dimostrando nei fatti scarsa sensibilità 
      nei confronti di un patrimonio culturale di altissimo livello. E pur in un 
      contesto nuovo, molto mediatizzato, le sue messe hanno assunto spesso 
      l’aspetto di celebrazioni di massa, con accentuazioni spettacolari da più 
      parti criticate. Un’altra innovazione riguardò i santi e beati da lui 
      proclamati”.  
       
      D. – Un gran numero.  
       
      R. – “Un numero enorme, davvero senza precedenti, prodotto anche dal 
      radicale snellimento dei processi di canonizzazione. Quasi per dire che la 
      santità è alla portata di tutti, ma con il rischio di banalizzarla e 
      inflazionarla, come hanno sottolineato autorevolissimi critici. Ha elevato 
      agli onori degli altari anche figure recenti e controverse, con un occhio 
      di riguardo ai papi. A partire dal 1870 vi è stata un’accentuazione, nuova 
      nella storia della Chiesa di Roma, sulla santità personale dei pontefici. 
      Alla perdita del potere temporale i papi hanno risposto in molti modi, tra 
      l’altro con l’enfatizzazione della santità rintracciata in alcuni loro 
      predecessori, e quindi in qualche modo connessa con il loro ufficio. 
      Giovanni Paolo II ha dato fortemente corpo a questa idea, come già avevano 
      fatto Pio IX, Leone XIII e soprattutto Pio XII”.  
       
      D. – E lo spazio e sostegno che il papa ha concesso a movimenti cattolici 
      nati nel Novecento, come l’Opus Dei, i focolarini e simili?  
       
      R. – “Fu sicuramente un’altra sua rottura, forse inevitabile di fronte a 
      un fenomeno nuovo come quello costituito dai movimenti, ma certo molto 
      problematica, per il rischio di polarizzazioni e frammentazioni nella 
      Chiesa cattolica causate da tendenze per loro natura centrifughe e 
      settarie, che potrebbero finire per minarne l’unità. E si può aggiungere 
      che Giovanni Paolo II, al fine di dare rappresentanza ai cattolici di ogni 
      parte del mondo, ha sfondato ogni tetto numerico nel creare nuovi 
      cardinali, in genere però d’età piuttosto avanzata, con ciò non 
      dimostrando una reale fiducia nel collegio cardinalizio, pur tante volte 
      convocato”.  
       
      D. – C’è qualcosa in cui papa Wojtyla ha fallito?  
       
      R. – “I rapporti ecumenici tra le diverse confessioni cristiane, 
      nonostante qualche successo e un’enfasi di facciata, non sono in realtà 
      progrediti. Ciò è avvenuto anche per l’irrigidimento di alcune Chiese 
      ortodosse, le quali, non più soffocate dal comunismo, mal sopportano la 
      concorrenza cattolica, a volte aggressiva, nei loro paesi; mentre per 
      quanto riguarda anglicani e protestanti alcune loro evoluzioni dottrinali 
      e disciplinari hanno allargato il divario che li distanzia da Roma. E 
      ancora, il governo della Chiesa universale non è stato tra le principali 
      preoccupazioni di Giovanni Paolo II. Che diffidò nei fatti della curia e 
      dei curiali italiani, forse anche per la sua provenienza da ‘un paese 
      lontano’, come disse dopo l’elezione presentandosi ai romani e al mondo, e 
      lasciò uno spazio amplissimo al suo segretario personale, Stanislaw 
      Dziwisz. In epoca recente nessun segretario di papa ebbe un peso così 
      rilevante. Nemmeno Loris Francesco Capovilla con Giovanni XXIII. Poi non 
      si può certo dire che vi sia stata una particolare cura per la formazione 
      del clero. Mentre sono cresciuti in misura incontrollabile documenti e 
      testi pubblicati a firma del papa: un vero diluvio, che ha rischiato di 
      svalutarli. Così come l’enfatizzazione insistita e ripetuta delle 
      richieste di perdono (i cosiddetti ‘mea culpa’) ha finito per confermare 
      nell’opinione pubblica rozzi stereotipi che tendono a criminalizzare la 
      storia del cristianesimo, prescindendo da una comprensione storica e 
      idealizzando indebitamente il presente come termine di confronto. Dunque 
      con effetti ben diversi da quelli che lo stesso pontefice auspicava da 
      questo riconoscimento doveroso e coraggioso delle colpe del passato, 
      tradizionale nella storia della Chiesa e rinnovato nella seconda metà del 
      Novecento dal concilio Vaticano II”.  
       
      D. – Con la modernità Giovanni Paolo II come s’è confrontato?  
       
      R. – “In modo ambivalente. Ne assumeva le apparenze. Cantava, nuotava, 
      sciava, pubblicava interviste e libri suoi personali. E così faceva 
      passare il messaggio che egli era amico dei moderni stili di vita. Ma in 
      realtà nei confronti della cultura moderna nutriva una diffidenza di 
      fondo. Da vero papa intransigente”.  
       
      3.4.2005 di Sandro 
      Magister, vaticanista de L'Espresso. 
      
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