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       02.06.2006 
      
Napolitano e Vauro da una parte. Wojtyla 
      e Calabresi dall'altra... scegliete! 
      I comunisti e i 
      cristiani negli anni…  
       
      Giuliano Ferrara ha scritto che lo stemma araldico di Giorgio Napolitano 
      dovrebbe essere un coniglio bianco in campo bianco. Tale è stato il 
      coraggio temerario che ha mostrato, in mezzo secolo, da leader comunista 
      che (dicono) dentro di sé dissentiva dal comunismo. Ieri Ferrara, dopo che 
      il neopresidente ha firmato la grazia per Bompressi, si è detto pentito di 
      quel giudizio. Mi chiedo perché. Quella firma sarebbe un atto di coraggio? 
      Io penso che lo stemma del presidente possa cambiare solo così: coniglio 
      rosso, con occhi rossi, in campo rosso.  
       
      E’ tipico “coraggio” rosso anche quello che ha portato un altro simbolo 
      del popolo di Sinistra, il vignettista Vauro, a uscire con un libro di 
      pernacchie contro papa Wojtyla, morto da un anno. Il dirigente comunista, 
      oggi presidente della Repubblica, e il vignettista più fanatico dei 
      giornali di Sinistra, sono accomunati da certa assenza di vergogna, di 
      stile e una vera mancanza di “pìetas”, quel sentimento universale che 
      induce almeno al rispetto delle persone morte, che hanno sofferto e che 
      sono ancora piante da chi era loro legato. Su tutto sembra prevalere 
      invece l’appartenenza tribale.  
       
      Il problema infatti non è la grazia in sé a Ovidio Bompressi che i 
      tribunali della Repubblica avevano condannato a 22 anni per il feroce 
      assassinio del Commissario Luigi Calabresi. Semmai è un problema che sia 
      stato questo il primo atto di Napolitano, firmato a velocità supersonica 
      (“inusuale” rileva il Corriere della sera). Al di là del merito (io sono 
      sempre stato favorevole alla grazia per Sofri) fare di questa firma il 
      primo atto di una presidenza significa voler trasformare tale gesto in un 
      pesante segnale simbolico e politico. Alla tribù e ai “nemici”. Significa 
      dire: noi non ci siamo presi solo il governo, ma ci siamo presi lo Stato. 
      E ora tutti i cittadini sono uguali, ma alcuni lo sono più degli altri.
       
      Ma la cosa più grave è che la famiglia Calabresi non è stata interpellata 
      ed ha appreso tutto dalla Tv. Per la smania di firmare quella 
      turbo-grazia, Napolitano ha evitato di fare perfino una semplice 
      telefonata preventiva alle vittime. Solo l’indomani – quando l’atto era 
      già esecutivo – ha alzato quel telefono dopo che perfino La Repubblica, in 
      prima pagina, rilevava l’incredibile mancanza di sensibilità umana: “E’ 
      incomprensibile” scriveva ieri il giornale di Ezio Mauro “che il 
      presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non abbia avvertito 
      l’urgenza di comunicare alla famiglia di Luigi Calabresi, prima che alla 
      stampa, la concessione della clemenza a Ovidio Bompressi”.  
       
      Quella di Napolitano è stata dunque una formalistica toppa messa a una 
      colossale gaffe. Anche perché ben altro doveva fare. Doveva quantomeno 
      dire agli italiani (per esempio nel messaggio per la festa della 
      Repubblica, che invece ha riempito di retorica e aria fritta) che è al 
      Commissario Calabresi che deve andare tutta la stima e la commozione, non 
      a Bompressi e compagni. Napolitano, che oggi rappresenta lo Stato 
      italiano, avrebbe dovuto ricordare solennemente quell’uomo buono e 
      coraggioso che fu il Commissario Calabresi, che prima subì il linciaggio 
      morale delle Sinistre in tutte le piazze d’Italia, e poi fu macellato come 
      un cane su un marciapiede. E che sacrificò la propria vita, sapendo di 
      sacrificarla (lasciando moglie e figli piccoli), per lo Stato italiano. 
      Perché il popolo italiano potesse vivere serenamente e non essere più 
      vittima quotidiana di uno scatenato squadrismo rosso che impazzava in 
      scuole, piazze, fabbriche, università. Un uomo grande che ha servito lo 
      Stato fino a dare la vita. Questo avrebbe dovuto dire Napolitano in 
      televisione.  
       
      Ma Calabresi non apparteneva alla sua tribù. Non era comunista. Era 
      cattolico. Profondamente cattolico. Proprio la sua fede cristiana ne aveva 
      fatto un uomo così straordinario, eroico, silenziosamente pronto a farsi 
      linciare e anche a morire. I cristiani da decenni sono le vittime 
      prescelte dei comunisti. Dalla Russia a tutti i Paesi dell’est, dalla Cina 
      a Cuba, per decenni i regimi comunisti hanno macellato milioni di 
      cristiani inermi. Li hanno torturati, hanno infierito su di loro, li hanno 
      derisi, spogliati di tutto, crocifissi, violentati in ogni modo. E 
      continuano ancora a farlo.  
      In Italia è in nome della stessa ideologia che sul finire della Seconda 
      guerra e negli anni successivi sono stati massacrati tanti preti e 
      militanti cattolici, compresi partigiani bianchi e sindacalisti cattolici 
      (storie bellissime e naturalmente “censurate” per 50 anni, finché non le 
      ha disseppellite Giampaolo Pansa). Il macello andò avanti per alcuni anni, 
      ma i comunisti non riuscirono, il 18 aprile del 1948, a prendere il potere 
      in Italia e quindi l’Italia non fece la fine dell’Albania, della 
      Cecoslovacchia o della Polonia. Non riuscirono a prendere il potere grazie 
      alla Chiesa di Pio XII e alla Dc di De Gasperi.  
      
       
      Venti anni dopo dal ventre del fanatismo comunista furono partoriti tanti 
      gruppuscoli estremisti, marxisti, troztkisti, maoisti e il feroce partito 
      comunista combattente che lamentava la “resistenza tradita” (cioè il fatto 
      che non presero il potere nel 1948). Così ricominciò la mattanza di 
      cattolici. Politici cattolici o uomini dello Stato come Calabresi che 
      della storia cristiana del Paese erano figli (o anche coraggiosi laici, 
      come Indro Montanelli: pochi). La mia generazione è cresciuta negli anni 
      in cui – nei licei, nelle università e nelle fabbriche – dirsi cattolico 
      significava candidarsi a essere sprangato. Ho visto decine di amici 
      picchiati selvaggiamente, ho personalmente subito minacce, aggressioni e 
      insulti, ho visto centinaia di sedi di Comunione e liberazione – per 
      esempio – devastate dalle molotov, da gruppi extraparlamentari in cui 
      militavano quelli che oggi fanno i politici incravattati, i famosi 
      giornalisti televisivi, i pensosi intellettuali e perfino i manager.   
       
      Dal 1969 al 1980 in Italia – secondo stime sicuramente incomplete – 
      vi 
      furono 12.690 fra attentati ed altri episodi di violenza politica (rossa 
      e, per reazione, nera), che provocarono 362 morti e 4.490 feriti. Nessuna 
      democrazia occidentale ha subito una guerra civile paragonabile, in 
      nessuna – com’è stato notato – l’assassinio è diventato strumento di lotta 
      politica.   
       
      In questo uragano di ideologia e violenza nel 1978 arrivò un grande papa 
      dall’est europeo, uno che aveva provato sulla sua pelle la persecuzione, 
      un figlio della Chiesa martire del comunismo (e del nazismo). Per i 
      giornali italiani fu subito “reazionario, oscurantista, anticomunista, 
      integralista”. Così per anni. Perché nelle redazioni dei giornali italiani 
      dominavano i soviet descritti da Michele Brambilla nell’ ”Eskimo in 
      redazione”. All’est fu subito una ventata di libertà, l’unica rivoluzione 
      pacifica, non violenta, liberale: quella fatta dagli operai cattolici di 
      Lech Walesa. Perciò nel 1981, dalle segrete stanze del potere comunista 
      dell’est europeo, qualcuno, temendo il vento di Solidarnosc, fece arrivare 
      a Roma Ali Agca. E alla nefanda storia criminale del comunismo si tentò di 
      aggiungere l’ultimo capolavoro: dopo aver macellato milioni di cristiani, 
      assassinare il Papa, il Vicario di Cristo in persona. Sempre gli stessi 
      carnefici e le stesse vittime. Sappiamo com’è andata. E sappiamo poi che 
      straordinario pontificato sia stato quello di Giovanni Paolo II. Sappiamo 
      anche il calvario che negli ultimi anni di malattia quest’uomo coraggioso 
      ha vissuto. Pensavamo che almeno dopo la sua morte, dopo tanta sofferenza, 
      il rispetto fosse dovuto. Invece il più comiziante dei vignettisti della 
      Sinistra italiana, abituata a usare la satira come prosecuzione della 
      propaganda politica, ha pensato di dare alle stampe un volumetto che 
      raccoglie tutte le sue pesanti vignette contro papa Wojtyla, venticinque 
      anni di derisione.  
       
      Non spendo una parola su queste vignette ribollite, né sulla noiosa 
      prefazione di Dario Fo. Voglio solo citare l’introduzione dello stesso 
      Vauro che scrive contro “questo papa che non esitò a sostenere Marcinkus 
      pur di dare una bella spallata al socialismo reale dell’Est”. Ecco dunque 
      il crimine che si imputa a Wojtyla il Grande. Per aggiungere un po’ di 
      fango gratuito Vauro pretende di dargli anche la responsabilità della 
      guerra in Jugoslavia (o buona parte di essa). Così il libro non diventa 
      forse propaganda politica? Lo vorrei chiedere proprio a Vauro che, in un 
      suo articolo-autogol, deprecava appunto la satira asservita al fanatismo 
      politico: “L’Austriaco dipinto come laido e viscido nelle imnmagini della 
      propaganda italiana nella guerra del 15-18, poi l’americano negroide e 
      selvaggio in quella tedesca della seconda guerra mondiale, sino all’ebreo 
      arcigno e dal naso adunco della iconografia nazista e fascista. Dove c’è 
      guerra c’è propaganda di guerra. Serve a mobilitare una parte 
      disumanizzando l’altra, a creare e far accettare nel senso comune la 
      terribile categoria del ‘nemico’ che è tale appunto perché disumano”.  
      Vauro farebbe bene a rileggere questo suo articolo anche perché è proprio 
      lì che si scaglia contro i danesi rei di aver fatto le famose vignette su 
      Maometto e co. Per lui quelle vignette sono solo “propaganda bellica”, 
      ovviamente filo amerikana: “non c’entra niente con la libertà di 
      espressione, né tanto meno con la satira”. Vauro arriva a dire – a 
      proposito delle violenze esplose nei paesi islamici - che “non si può 
      stupirsi e indignarsi se messaggi violenti ottengono e provocano reazioni 
      violente nel ‘nemico’ ”.  
       
      Insomma, satira sugli islamici no. Sui cristiani, sul Papa, su Gesù Cristo 
      invece Vauro si scatena. Sicuro che da loro “reazioni violente” non 
      arriveranno. Neanche per questo dileggio postumo che è un po’ come andare 
      a urinare su una tomba. Ad aumentare la tristezza c’è il fatto che sia 
      stata la Piemme (che un tempo fu una casa editrice cattolica) a pubblicare 
      questa roba, peraltro la Piemme oggi è di Mondadori, cosicché si scopre 
      che Vauro pubblica, indirettamente, presso l’odiato Berlusconi 
      (naturalmente il Cav non c’entra con queste scelte editoriali essendo lui 
      stesso dileggiato da Vauro). Si ha la sensazione di vivere già in un “regimetto”. 
      Senza “pìetas”. Arrogante e volgare.  
       
      di Antonio Socci
        
        
      
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