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Roma chiama Pechino. Ma la linea è spesso 
            interrotta | 
            
             
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             Tra Cina e Vaticano, i 
            segnali di avvicinamento si alternano a improvvise chiusure. Le 
            quattro sedie vuote del sinodo. Il nuovo vescovo riconosciuto sia 
            dal governo che dal papa. L’arrivo delle suore di Madre Teresa. “La 
            Civiltà Cattolica” tira le somme. 
             
            di Sandro Magister  | 
           
         
        
       
      ROMA, 27 ottobre 2005 – Durante le tre 
      settimane del sinodo mondiale dei vescovi che si è da poco concluso in 
      Vaticano, quattro sedie sono rimaste vuote: quelle dei quattro vescovi 
      della Cina continentale invitati dal papa ma bloccati in patria dalle 
      autorità cinesi.  
       
      Nell’omelia della messa conclusiva del sinodo, domenica 23 ottobre in 
      piazza San Pietro, Benedetto XVI ha espresso la sua “viva pena” per 
      la loro assenza, e la vicinanza sua e di tutta la Chiesa al “sofferto 
      cammino” della Chiesa cinese. La Santa Sede si era messa in moto da un 
      anno per far partecipare i quattro vescovi al sinodo, ottenendo 
      inizialmente dei segnali incoraggianti.  
       
      Aveva anche ben studiato quali vescovi invitare. Dei quattro, due erano da 
      tempo riconosciuti dal governo di Pechino: Antonio Li Duan, vescovo di 
      Xian, e Aloysius Jin Luxian, vescovo di Shanghai. Un altro, Luca Li 
      Jingfeng, vescovo di Fengxiang, era stato riconosciuto dal governo solo un 
      anno fa, senza però essere stato obbligato ad iscriversi all'Associazione 
      Patriottica. Il quarto, Giuseppe Wei Jingyi, vescovo di Qiqihar, era privo 
      di riconoscimento. L’intento di Roma era di mostrare la loro comune 
      appartenenza alla stessa Chiesa, nonostante i diversi tragitti di 
      ciascuno.  
       
      Ma alla fine il permesso a recarsi a Roma non è stato concesso a nessuno 
      dei quattro.  
       
      Ciascuno di essi ha scritto una lettera al papa, in latino, per 
      ringraziarlo ed esprimergli la sua piena fedeltà. Le lettere sono arrivate 
      in Vaticano nei primi giorni di ottobre. Il 18, il cardinale segretario di 
      stato Angelo Sodano ha letto in aula quella scritta dal vescovo di 
      Fengxiang, Li Jingfeng. Benedetto XVI ha risposto a tutti per lettera. Ma 
      il carteggio non è stato reso pubblico. L’unico testo che il Vaticano ha 
      reso noto, il 22 ottobre, è stata la lettera scritta ai quattro vescovi 
      cinesi dall’insieme dei vescovi del sinodo.  
       
      Il giorno dopo che la sua lettera era stata letta in sinodo, il vescovo Li 
      è stato convocato dall’ufficio affari religiosi della provincia di Shaanxi. 
      In altri tempi, per un simile atto sarebbe stato accusato di tradimento a 
      servizio di una potenza straniera. Invece, l’indomani, il vicepresidente 
      dell’Associazione Patriottica che controlla la Chiesa ufficiale, Liu 
      Banian, ha dichiarato in televisione che l’invito del papa ai quattro 
      vescovi “esprime la grande cura che Benedetto XVI ha nel voler 
      migliorare i rapporti diplomatici tra Cina e Vaticano”. 
      
      * * * 
      
      Negli stessi giorni del sinodo, è giunta 
      notizia della morte del vescovo Pietro Zhang Bairen, della diocesi di 
      Hanyang nella provincia di Hebei.  
       
      Scomparso a 91 anni, Zhang ne aveva passati 24 in carcere e ai lavori 
      forzati. Apparteneva alla Chiesa cosiddetta “sotterranea”, quella priva di 
      riconoscimento ufficiale. Nonostante ciò, le autorità cinesi hanno 
      consentito che per lui fossero celebrati funerali pubblici, nel suo 
      villaggio natale. E nonostante si fosse scoraggiata la partecipazione 
      popolare, sono accorsi 7 mila fedeli. Ai funerali – concelebrati il 15 
      ottobre da 15 preti – hanno assistito anche esponenti governativi locali, 
      portando una corona di fiori con scritto: “Al vecchio signor Zhang 
      Bairen”.  
       
      Tre giorni dopo, il 18 ottobre, a Wanxian nella provincia di Sichuan è 
      stato ordinato un nuovo vescovo, Paolo He Zeging. Il nuovo vescovo è stato 
      assegnato come ausiliare all’attuale titolare della diocesi, Giuseppe Xu 
      Zhixuan. E questi, all’inizio del rito, ha comunicato ai presenti che 
      l’ordinazione avveniva con l’approvazione della Santa Sede, oltre che con 
      il riconoscimento del governo. Nel 2005, questa è la terza ordinazione 
      episcopale che avviene con questo doppio riconoscimento parallelo. Le 
      precedenti due hanno riguardato le ordinazioni di Giuseppe Xing Wenzhi a 
      Shanghai e di Antonio Dang Mingyan a Xian.  
       
      Un’area della diocesi del nuovo vescovo sarà sommersa dalle acque del 
      Fiume Azzurro, lo Yang Tze, una volta ultimata la grande diga delle Tre 
      Gole. Ma il governo ha autorizzato la diocesi a ricostruire più a monte le 
      cinque chiese che andranno perdute. Il nuovo vescovo He ha 37 anni. Con 
      lui la Chiesa cinese allinea una nuova generazione di vescovi tra i più 
      giovani al mondo: audace scommessa sul futuro. Di quelli ordinati nel 
      2004, quattro su cinque hanno meno di 40 anni. Di quelli ordinati nel 
      2005, due su tre. Tutti hanno l’approvazione sia di Roma che delle 
      autorità cinesi. Questa della doppia approvazione è ormai una realtà quasi 
      generalizzata. Anno dopo anno, Roma ha dato il suo riconoscimento ai 
      vescovi insediati dal governo cinese con l’intento di creare una Chiesa 
      separata. E viceversa, le autorità della Cina tacitamente accettano oggi 
      che i nuovi vescovi formalmente eletti con le procedure fissate dal 
      governo abbiano la previa approvazione della Santa Sede.  
       
      Intervenendo in sinodo il 12 ottobre, il vescovo di Hong Kong, Giuseppe 
      Zen Ze-kiun, l’ha detto con chiarezza:  
       
      “Dopo lunghi anni di separazione forzata, la stragrande maggioranza dei 
      vescovi della Chiesa ufficiale è stata legittimata dalla magnanimità del 
      Santo Padre”.  
       
      E viceversa: 
       
      “Specialmente negli ultimi anni risulta sempre più chiaro che i vescovi 
      ordinati senza approvazione del romano pontefice non vengono accettati né 
      dal clero né dai fedeli. Si spera che davanti a questo ‘sensus Ecclesiae’ 
      il governo di Pechino veda la convenienza di venire a una normalizzazione 
      della situazione, anche se gli elementi ‘conservatori’ interni alla Chiesa 
      ufficiale vi pongono resistenza per ovvii motivi di interesse”.  
       
      Insomma: 
       
      “La Chiesa in Cina, apparentemente divisa in due, una ufficiale 
      riconosciuta dal governo e una clandestina che rifiuta di essere 
      indipendente da Roma, è in realtà una Chiesa sola, perché tutti vogliono 
      stare uniti al papa”.  
       
      Pur tra enormi difficoltà, dunque, è in corso una ricomposizione unitaria 
      della comunità cattolica cinese, che influisce anche sui rapporti tra la 
      Santa Sede e la Cina. Il tentativo del regime comunista di sottomettere e 
      separare da Roma una parte consistente della Chiesa nazionale può 
      ritenersi fallito. Un altro segnale recente di cambiamento è l’invito 
      fatto lo scorso aprile da autorità cinesi alle suore di Madre Teresa di 
      Calcutta ad aprire una loro casa in Cina. Suor Nirmala, attuale madre 
      generale dell’ordine, si è recata in Cina a metà luglio a visitare il 
      luogo prescelto, Qingdao nella provincia di Shandong. E ora è in attesa 
      del via libera. 
      
      * * * 
      
      Benedetto XVI segue con molta attenzione 
      quello che accade in Cina. Ed è a sua volta sotto osservazione da parte 
      delle autorità cinesi. Il suo principale libro di teologia, “Introduzione 
      al cristianesimo”, è stato tradotto da un editore di Shanghai ed è andato 
      presto esaurito nelle librerie statali, dove quasi mai i testi della 
      Chiesa cattolica ottengono il nulla osta alla vendita.  
       
      Prima ancora che il comunismo, infatti, è la tradizionale subordinazione 
      delle religioni al potere sovrano, tipica della cultura cinese, a rendere 
      difficile l’instaurarsi in Cina di una piena libertà religiosa. Fino 
      all’epoca moderna non esisteva in Cina una parola per dire “libertà”, né 
      in senso filosofico né in senso politico. E la parola che oggi è entrata 
      in uso dà comunque l’idea che la libertà sia qualcosa di concesso 
      all’individuo da un potere superiore. Dell’attuale situazione della Chiesa 
      cattolica in Cina dà un interessante ritratto un articolo apparso su “La 
      Civiltà Cattolica” del 15 ottobre 2005, qui sotto riprodotto in gran 
      parte, per gentile concessione della rivista.  
       
      Edita a Roma da un collegio di gesuiti, “La Civiltà Cattolica” passa 
      all’esame dalla segreteria di stato vaticana prima della stampa di ogni 
      suo numero. Quindi riflette autorevolmente il punto di vista della Santa 
      Sede sulle questioni trattate, in questo caso sulla Cina. L’autore 
      dell’articolo, gesuita, è professore emerito di teologia all’Università di 
      Bonn.  
       
      La Cina si sta aprendo. 
      Impressioni di un viaggio  
       
      di Hans Waldenfels, S.I. 
       
      Sono stato per la terza volta nella Cina continentale nel giugno scorso, 
      senza contare i miei numerosi soggiorni a Hong Kong e a Taiwan. [...] A 
      Pechino ho avuto occasione di tenere lezioni in tre istituzioni 
      scientifiche, con le discussioni che ne sono seguite. Da una parte, i 
      colleghi hanno sottolineato che la scienza è un luogo di libertà, nel 
      quale si può dire e pensare, ad alta voce, quello che si vuole. Ma, 
      dall’altra, non si può passare sotto silenzio il fatto che a partire 
      almeno dal 2003 sono state imposte di nuovo evidenti restrizioni e censure 
      ai lavori scientifici. Questo controllo vale soprattutto per testi di 
      natura religiosa e di ordine ideologico universale, ma anche per la 
      filosofia della religione. In tale ambito va anche ricordato che nel 
      frattempo non si sente più parlare o, per lo meno, non si percepisce più 
      alcuna risonanza dei cinesi detti “cristiani di cultura”, noti già da 
      tempo in Europa: si tratta per lo più di intellettuali che non sono 
      battezzati, ma che accordano una grande rilevanza al cristianesimo sul 
      piano della vita culturale e simpatizzano fortemente a suo favore.  
       
      Nelle mie lezioni ho potuto esprimere senz’altro considerazioni di ordine 
      filosofico-religioso su questioni ermeneutiche e problemi linguistici, e 
      anche sul rapporto tra fede e ragione, e sul dialogo tra buddismo e 
      cristianesimo. Ma la cosa più importante era di adottare sempre una 
      prospettiva scientifica e di non parlare mai in termini di una confessione 
      religiosa. Da questo punto di vista il concetto di “teologia” è sempre 
      sospetto. Ma questo non esclude che si mostri interesse per le radici 
      della civiltà europea, e anche per i suoi sviluppi in epoca antica o nel 
      Medioevo, con tutte le sue acquisizioni scientifiche e letterarie. Bisogna 
      aggiungere inoltre che anche in Cina, come in tutti gli altri paesi del 
      mondo, la componente umanistica deve lottare fortemente per ritagliarsi un 
      suo posto tra le soverchianti scienze della natura e della tecnica. Al 
      primo posto c’è evidentemente una visione utilitaristica. E a questo 
      riguardo si capisce bene perché un monaco taoista, interrogato sul perché 
      gli uomini pratichino una loro religione, abbia dato questa risposta: 
      “Fanno affari con gli dèi”. 
       
      Si trovano tradotti in Cina alcuni libri che prendono una certa distanza 
      dal cristianesimo istituzionale, o per il loro contenuto, come, ad 
      esempio, i libri di Hans Küng, o perché difendono una teologia 
      pluralistica della religione, come, ad esempio, i libri di John Hick o 
      Paul Knitter. Recentemente sono stati tradotti in cinese anche 
      l’”Introduzione al cristianesimo” di Joseph Ratzinger e la teologia morale 
      di Karl-Heinz Peschke. Zhuo Xingping ha pubblicato nel 1998 un libro sulla 
      teologia attuale del cattolicesimo occidentale. È disponibile anche una 
      certa documentazione, come quella relativa al simposio sull’impegno 
      cristiano nella società odierna, organizzato a Pechino nel 2001 dalla 
      Misereor. Con mia sorpresa ho trovato anche alcune pubblicazioni del 
      letterato e linguista austriaco Leo Leeb, che in futuro potrebbero 
      contribuire in maniera incisiva a costruire un dialogo interculturale. 
      Curiosità e interesse si notano ovunque in Cina. Ma non si devono 
      sottovalutare neppure i timori che si manifestano nei confronti di 
      aperture troppo ampie. Probabilmente in futuro si avrà più bisogno di 
      pazienza che di polemiche. 
      
      * * * 
      
      Hebei è la provincia che comprende 
      Pechino e la vicina Tianjin (Tientsin). Nella provincia di Hebei ci sono 
      otto diocesi ufficiali, quattro delle quali si trovano nel territorio in 
      cui si erano insediate un tempo le missioni dei gesuiti. Ma Hebei è anche 
      la provincia dalla quale giungono da tempo brutte notizie, come ancora 
      ultimamente — nei giorni della morte di Giovanni Paolo II e dell’elezione 
      di Benedetto XVI — quella dell’arresto di un vescovo e di un sacerdote 
      della comunità clandestina, e dei disordini che ne sono conseguiti. [...]
       
       
      Ho potuto visitare due vescovi abbastanza giovani, poco sopra i 40 anni, a 
      Xianxian e a Jiangxian, una diocesi che oggi prende il nome dalla località 
      di Hengshui. Questi due vescovi impressionano anzitutto per la loro 
      giovinezza e la loro influenza personale, ma dicono anche di poter 
      disporre di un clero giovane e, soprattutto, di numerose giovani 
      religiose, descrivendo questa loro situazione come esemplare.  
       
      È immensa l’autocoscienza che questi cristiani rivelano, ma tale è anche 
      lo spirito missionario che manifestano. Il vescovo Li Liangui di Xianxian 
      parlava di 70.000 cattolici su sette milioni di abitanti. Egli lavora con 
      circa 100 sacerdoti e 260 suore. Nella sua diocesi ci sono 50 parrocchie, 
      16 cliniche, tre ospedali, un asilo infantile, una casa per anziani e una 
      per bambini disabili. Nel seminario minore ci sono 40 seminaristi, mentre 
      15 sono prossimi all’ordinazione. Incidentalmente egli ha anche affermato 
      di aver imparato molto, assieme ai suoi confratelli, dai vecchi gesuiti 
      che hanno continuato ad assistere la gente nei villaggi più sperduti. Con 
      lui ho potuto far visita brevemente al suo predecessore, l’ottantottenne 
      vescovo Liu Dinghan, gesuita, con il quale si poteva comunicare soltanto 
      per iscritto, ma agevolmente, per via della sua sordità.  
       
      A Jiangxian o Hengshui, secondo quanto riferisce il vescovo Pietro Feng 
      Xinmao, ci sono 26.000 cattolici su un milione e mezzo di abitanti. Tra 
      loro lavorano 30 sacerdoti e 75 suore. Le comunità sono grandi. Ne ho 
      conosciute due o tre. Un giovane parroco cura 40 comunità e sette località 
      dotate di una chiesa o di una cappella, e un altro, in un distretto 
      chiaramente più antico, cura una parrocchia con 20 comunità, che hanno 15 
      chiese. Quest’ultimo, nella cura dei suoi 1.500 fedeli, è coadiuvato da un 
      cappellano e da due preti più anziani, già a riposo. Si tratta 
      prevalentemente di comunità rurali, nelle quali la Chiesa sta crescendo. 
      In una piccola località, nella quale il vescovo alla fine di maggio aveva 
      potuto consacrare una piccola chiesa, si era cominciato tre anni prima con 
      un’unica donna anziana. Nel giorno della consacrazione la comunità contava 
      180 fedeli, e durante la celebrazione della messa il vescovo aveva 
      battezzato 20 adulti. 
      
      * * * 
      
      Nel 1983, la Chiesa cinese ufficiale dava 
      ancora un’impressione di chiusura, per non dire di spavento. Si vedevano 
      soltanto vescovi e sacerdoti anziani, e similmente fedeli di una certa 
      età. Il legame con la Chiesa universale era costituito dalla messa 
      tridentina, in latino. Nei messali latini, nel canone romano era stata 
      ricoperta la riga che conteneva la menzione del papa. Ora però, ovunque si 
      vada, la santa messa viene celebrata nella lingua materna, su un altare 
      rivolto verso il popolo. Il nome del papa viene pronunciato sempre ad alta 
      voce nel canone. Ovunque si vada si può vedere il ritratto del nuovo papa 
      Benedetto XVI.  
       
      I testi liturgici sono stati allestiti a Taiwan. E non c’è stata nessuna 
      difficoltà a trasferire questi testi sul continente. Se si chiede quale 
      sia stata la data ufficiale in cui si è introdotta la nuova liturgia, la 
      risposta resta nel vago. A quanto pare, non è giunta nessuna disposizione 
      "dall’alto", ma si è cominciato a fare così all’inizio degli anni Novanta, 
      poco dopo il 1992-93. Si sono così costituite comunità liturgiche in cui 
      si ama cantare e pregare ad alta voce, per quanto ho potuto constatare, a 
      Pechino e nella provincia, con una grande partecipazione di fedeli di 
      tutte le età, ma soprattutto, delle giovani e giovanissime generazioni, e 
      anche di uomini. Quelli con cui ci si incontra manifestano gioia e 
      fiducia, ma anche una forte determinazione. Ai laici compete la loro parte 
      nella liturgia: la proclamazione delle letture, le preghiere dei fedeli, 
      la processione offertoriale e tutto quello che già da tempo si pratica. 
      Nelle comunità che ho potuto visitare era una cosa normale che ci fossero 
      anche i consigli pastorali. Se tutto questo non trae in inganno, si nota 
      chiaramente che le responsabilità sono equamente distribuite tra sacerdoti 
      e laici. 
      
      * * * 
      
      Di fronte a questa situazione viene 
      spontaneo chiedersi che cosa significhi in Cina “Chiesa romana”. 
      All’estero da molto tempo si è diffusa l’impressione che in Cina ci fosse 
      una Chiesa cattolica divisa. Secondo tale visuale c’era da un lato la 
      Chiesa ufficiale dominata politicamente dall’Associazione Patriottica, con 
      vescovi nominati dal governo cinese, che esercitavano il loro ufficio 
      senza l’approvazione della Santa Sede: questa veniva chiamata in maniera 
      riduttiva ed errata “Chiesa patriottica”; mentre, dall’altro lato, c’era 
      una comunità non riconosciuta dal governo e perciò strettamente 
      sorvegliata e perseguitata, con vescovi nominati dalla Santa Sede, senza 
      riconoscimento da parte del governo: e questa viene detta “Chiesa 
      clandestina”.  
       
      Dobbiamo però anzitutto modificare un’immagine che si è divulgata con tale 
      denominazione: Chiesa clandestina non significa in molti casi che non 
      possegga edifici ecclesiastici pubblici. In molti luoghi ci sono chiese a 
      cui si può accedere pubblicamente. Si può anche dare il caso che la 
      cattedrale di un vescovo clandestino sia più grande di quella del vescovo 
      ufficiale parallelo. Tuttavia, dove non si dispone di un locale proprio 
      per la chiesa la messa viene celebrata spesso in luoghi privati. Tra i 
      protestanti, l’uso delle cosiddette “chiese domestiche” è ancora più 
      radicato che presso i cattolici. Un estraneo non è in grado di percepire 
      come si configuri la situazione concretamente nei singoli luoghi, ed è 
      perciò indotto a fraintendere. Ma si può dire che la situazione generale 
      ora è cambiata, se si tengono presenti le seguenti considerazioni.  
       
      Secondo le statistiche rese note pubblicamente, il numero dei cattolici in 
      Cina si aggira complessivamente sui 12 milioni. Vi sono 74 vescovi 
      ufficiali e 46 clandestini, 2.710 sacerdoti, di cui 1.000 nella 
      clandestinità e 1.710 nella comunità ufficiale, 5.200 religiose, 1.700 
      nella clandestinità e 3.500 nella comunità ufficiale; nel 2003, 800 
      seminaristi nella clandestinità e 580 nella comunità ufficiale, e infine 
      800 novizie di ordini religiosi in ciascuno dei due gruppi ecclesiastici. 
      Bisogna aggiungere poi che dei 74 vescovi ufficiali soltanto una decina o 
      poco più non sono riconosciuti da Roma. Si tratta dunque di una realtà 
      soddisfacente, ma che suscita nello stesso tempo alcuni problemi.  
       
      Mentre in passato si era diffusa l’impressione che la maggior parte dei 
      vescovi della comunità ufficiale si fosse riconciliata successivamente e 
      perciò avesse ottenuto il riconoscimento da Roma, al presente si può 
      constatare una situazione completamente diversa. Prima di essere 
      consacrati vescovi della comunità ufficiale, i candidati normalmente 
      cercano di ottenere la nomina dalla Santa Sede.  
       
      Questo è il caso dei due giovani vescovi che ho visitato nella provincia 
      di Hebei. E ciò si è verificato anche a Shanghai per Giuseppe Xing Wenzhi, 
      preconizzato successore del vescovo del luogo, gesuita, Aloysius Jin 
      Luxian, e suo vicario generale, consacrato il 28 giugno 2005. Con il 
      riconoscimento da parte di Roma del successore di Jin Luxian, c’è da 
      prevedere per il futuro che non sarà nominato un successore anche del 
      vescovo della parallela comunità clandestina di Shanghai, Giuseppe Fan 
      Zhongliang, finora riconosciuto da Roma, ma non da Pechino.  
       
      Questo non è il primo caso, come si legge invece sulla stampa ufficiale, 
      ma certo il più rilevante per l’importanza che spetta a Shanghai 
      nell’intero Paese. Si è raggiunto sostanzialmente lo stesso risultato 
      anche con la consacrazione dei due vescovi di Hebei, che abbiamo 
      menzionato prima, e in particolare nel caso del secondo, Pietro Feng 
      Xinmao, consacrato il 6 gennaio 2004. Il giorno della sua consacrazione, 
      Feng ha insistito che si leggesse pubblicamente l’atto di nomina da parte 
      di Roma. Inoltre egli aveva richiesto che i tre vescovi consacranti 
      fossero vescovi riconosciuti da Roma. Quello che così si è messo in moto 
      può servire da modello e dovrà essere portato avanti in futuro con grande 
      sensibilità e pazienza. 
      
      * * * 
      
      La situazione che abbiamo descritto rende 
      evidente che in Cina si sta realizzando una nuova permeabilità tra le due 
      istituzioni. Diversi fattori vanno tenuti presenti. Il problema più grave 
      si pone senza dubbio per i vescovi che operano nella clandestinità e per i 
      loro fedeli. Qui la situazione sembra presentarsi in maniera 
      differenziata. Vi sono regioni in cui le autorità locali rinunciano a 
      insediare vescovi propri, per cui il vescovo lì presente non ufficialmente 
      viene a trovarsi di fatto in una situazione di tacita approvazione da 
      parte delle autorità del luogo.  
       
      Sono più problematiche invece quelle regioni in cui continuano a 
      sussistere, come prima, due sistemi paralleli. La soluzione cui si può 
      giungere in questi casi può essere anche che Roma rinunci a dare una 
      successione alla linea ritenuta non ufficiale dal punto di vista 
      governativo, per il fatto che nell’ambito della Chiesa locale ufficiale si 
      è giunti o si sta giungendo a una nuova intesa. In questo senso ci sono 
      già regioni in cui in pratica non si parla più di una “Chiesa 
      clandestina”.  
       
      D’altra parte non c’è da aspettarsi che i fedeli si adattino ovunque e 
      senza riserve a queste nuove situazioni e che aderiscano prontamente e 
      senza esitazioni a una forma di Chiesa verso la quale hanno finora nutrito 
      dubbi, dopo aver sperimentato a lungo oppressioni e persecuzioni. Troppe 
      ferite non sono ancora sanate. Su questo punto Roma non può non tener 
      conto di quello che ha subìto la Chiesa negli altri paesi in cui le sue 
      strutture sono state oggetto di oppressione. La Santa Sede deve però anche 
      tener presente che, a partire almeno dalle lotte per le investiture 
      medievali, si è andata sviluppando una lunga storia dei rapporti tra stato 
      e Chiesa, che si è prolungata in modi diversi fino ai nostri giorni e che 
      aiuta a trovare soluzioni in vista di un rapporto soddisfacente e 
      realistico tra le parti.  
       
      Abbiamo già accennato occasionalmente a un problema che però può trovare 
      una soluzione su un piano puramente pratico. Esso consiste nel fatto che i 
      confini delle diocesi ufficiali spesso non coincidono con quelli che 
      esistevano prima, e che sopravvivono nelle Chiese non ufficiali. Su questo 
      punto vi sono opposizioni umanamente comprensibili, ma anche desideri che 
      possono venir presi in considerazione sul piano politico. 
      
      * * * 
      
      Nell’ambito dei problemi che interessano 
      i rapporti tra Roma e la Cina si menzionano sempre la questione di Taiwan 
      e la nomina dei vescovi. Per quanto riguarda Taiwan, già da tempo vi sono 
      segni che si deve cominciare a parlarne e che la questione sembra 
      risolvibile. Si presenta invece più difficile il secondo problema, che si 
      è sempre posto in questi termini: mentre il governo cinese considera la 
      nomina dei vescovi una questione interna alla Cina, la Santa Sede, anche e 
      soprattutto per motivi teologici, afferma che qui si tratta di una 
      questione che va regolata non sul piano politico, ma su quello religioso 
      interno. A lungo è sembrato che le due posizioni coesistessero l’una 
      accanto all’altra senza potersi conciliare tra loro. Ma in questi ultimi 
      tempi è dato intravedere che si stanno aprendo nuove possibilità di 
      soluzione, almeno pragmaticamente.  
       
      Questi passi in avanti, che sono diventati evidenti, non significano certo 
      che in breve tempo si possa superare e risolvere il divario che esiste tra 
      la cultura cinese e la sensibilità giuridica occidentale, come pure 
      l’assetto politico che domina in Cina già da quasi un secolo. Sono 
      necessari tempi lunghi.  
       
      D’altra parte, in questo confronto tra i due mondi non va trascurato il 
      peso che viene accordato ad alcune personalità, al di là di ogni 
      considerazione teorica sull’essenza della persona. I capi politici della 
      Cina possiedono una grande levatura, ma anche le figure dei papi fanno 
      sentire il loro profondo influsso fino in Cina. Anche a me è stata 
      posta più volte la domanda se il nuovo papa andrà in Cina.  
       
      Una donna era la nostra guida quando, l’ultimo giorno, ho fatto visita al 
      luogo dove sino ad oggi sono sepolti i grandi gesuiti Matteo Ricci, Adam 
      Schall von Bell, Ferdinand Verbiest e altri. Ci avevano dato un dépliant 
      in due lingue. Il luogo si trova all’interno di un grande centro di 
      formazione del partito, ma la nostra guida, che non conosceva la nostra 
      identità, durante il percorso ci ha fatto notare due edifici che nelle 
      loro strutture fondamentali risalgono all’antica epoca dei gesuiti. Essa 
      ha aggiunto che c’è un progetto che prevede di ripristinarli nella loro 
      forma primitiva. Questi edifici certamente non saranno restituiti alla 
      Compagnia di Gesù, ma si vede chiaramente come la storia continui a 
      operare. Nonostante i contrasti e le ambivalenze che queste impressioni si 
      trascinano dietro, prevale in fondo l’ottimistica convinzione che anche in 
      Cina il senso della realtà, la verità, l’attenzione verso tutto ciò che è 
      umano e la libertà si stiano avviando su una nuova strada. 
      
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