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Benedetto XVI: 
            Il papa, il programma. 
            Joseph Ratzinger 
            l’ha riproposto nell’ultima omelia prima del conclave: “essere 
            adulti nella fede”, non “fanciulli in stato di minorità, 
            sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di 
            dottrina”.  
            Voce per voce, le 
            questioni aperte del suo pontificato  | 
            
              
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      ROMA, 20 aprile 2005 – Lo 
      chiamavano conservatore. Ma Joseph Ratzinger ha rivoluzionato anche il 
      conclave che il 19 aprile l’ha fatto papa, Benedetto XVI, “umile 
      lavoratore della vigna del Signore”.  
       
      Mai nell’ultimo secolo la scelta di un pontefice è stata parlata in una 
      lingua così schietta e tagliente. Con un crescendo che, più si avvicinava 
      l’ora della conta, e più si faceva formidabile. Fino all’ultima conferenza 
      sullo stato del mondo pronunciata da Ratzinger nell’ultimo giorno di vita 
      del papa defunto. Fino, ancor più, all’ultima sua omelia proclamata in San 
      Pietro “pro eligendo romano pontifice”, poche ore prima che si chiudessero 
      le porte della Cappella Sistina.  
       
      Da cardinale, Ratzinger non ha fatto niente “a buon mercato”, perché lo 
      eleggessero papa. I voti, i consensi, gli sono caduti addosso l’uno dopo 
      l’altro, mese dopo mese, scrutinio dopo scrutinio, attratti soltanto da 
      quel suo programma duro come il diamante. All’ultima messa in San Pietro 
      l’ha riproposto con le parole dell’apostolo Paolo: l’obiettivo è “essere 
      adulti nella fede”, e non “fanciulli in stato di minorità, sballottati 
      dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina”. Perché 
      proprio a questo portano i tempi odierni, ha ammonito: a “una dittatura 
      del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come 
      ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.  
       
      Contro questo “inganno degli uomini” Ratzinger ha opposto che “noi invece 
      abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo”, che è anche “la 
      misura del vero umanesimo” e “il criterio per discernere tra vero e falso, 
      tra inganno e verità”. Conclusione lapidaria: “Questa fede adulta dobbiamo 
      maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo”. E non 
      importa se “avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene 
      spesso etichettato come fondamentalismo”.  
       
      Le accuse di fondamentalismo si sono sprecate, negli anni, contro questo 
      teologo tedesco che oggi è il nuovo capo della Chiesa cattolica. Negli 
      anni Sessanta, il giovane Ratzinger seguì il Concilio Vaticano II come 
      perito del cardinale di Colonia, Joseph Frings. Scagliò i suoi primi dardi 
      contro quel Sant’Uffizio “fuori dai tempi, causa di danno e di scandalo”, 
      che molti anni dopo sarebbe andato a dirigere. Ma prestissimo, a Concilio 
      terminato da poco, cominciò a denunciarne gli effetti “crudelmente 
      opposti” alle attese.  
       
      Il suo tragitto fu parallelo a quello di altri due teologi di prima 
      grandezza dell’epoca, suoi amici e maestri, Henri De Lubac e Hans Urs von 
      Balthasar, anch’essi poi divenuti cardinali e anch’essi accusati d’aver 
      svoltato dal progresso alla conservazione. Ratzinger non si curò mai 
      dell’etichetta che gli venne applicata: “Non sono cambiato io, sono 
      cambiati loro”. Strano conservatorismo, in ogni caso, il suo. Capace di 
      scuotere, non di tranquillizzare la Chiesa. Un modello da lui molto amato 
      è san Carlo Borromeo: l’arcivescovo di Milano che dopo il Concilio di 
      Trento nientemeno “ricostruì la Chiesa cattolica, la quale anche dalle 
      parti di Milano era ormai pressoché distrutta, senza per questo esser 
      ritornato al Medioevo; al contrario creò una forma moderna di Chiesa”.  
       
      Oggi la svolta di civiltà è non meno epocale, ai suoi occhi. La cultura 
      che s’è imposta in Europa “costituisce la contraddizione in assoluto più 
      radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose 
      dell’umanità”, ha argomentato il 1 aprile a Subiaco, nell’ultima sua 
      conferenza regnante Giovanni Paolo II. E quindi la Chiesa deve reagire col 
      massimo del coraggio, non conformandosi al secolo, non inginocchiandosi al 
      mondo, ma “con la santa inquietudine di portare a tutti il dono della 
      fede, dell’amicizia con Cristo”.  
       
      Nel domani della Chiesa, Benedetto XVI non sogna conversioni di popoli in 
      massa. Prevede in molte regioni un cristianesimo di minoranza, ma lo vuole 
      “creativo”. Al timido dialogo con i non credenti e gli uomini di altre 
      fedi, preferisce lo slancio missionario. Pessimismo e angoscia non gli 
      appartengono, anche qui a rovescio delle etichette correnti. La sua 
      omelia-manifesto del 18 aprile in San Pietro l’ha chiusa invocando una 
      terra “cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio”.  
       
      È stato così fin da bambino: “Il cattolicesimo della mia Baviera, in cui 
      sono cresciuto, era gioioso, colorato, umano. Mi manca il senso del 
      purismo. Sarà perché fin dall’infanzia ho respirato il barocco”. Diffida 
      dei teologi che “non amano l’arte, la poesia, la musica, la natura: 
      possono essere pericolosi”. Ama le passeggiate in montagna. Suona il 
      pianoforte e predilige Mozart. Suo fratello Georg, sacerdote, è maestro di 
      cappella a Ratisbona, una delle ultime isole di resistenza della grande 
      polifonia sacra e del gregoriano.  
       
      E già questo è da anni uno dei suoi punti di collisione con le novità 
      della Chiesa postconciliare. Contro la trasformazione della messa e delle 
      liturgie “in spettacoli che abbisognano di registi geniali e di attori di 
      talento” ha avuto parole taglienti. Altrettanto contro la dilapidazione 
      della grande musica sacra. “Quante volte celebriamo soltanto noi stessi 
      senza neanche renderci conto di Lui”, ha scritto a commento della Via 
      Crucis dello scorso Venerdì Santo. Dove Lui sta per Gesù Cristo, il 
      dimenticato dalle liturgie tramutate in assemblee di consoci. Benedetto 
      XVI non ha mai nascosto le sue riserve neppure sulle liturgie di massa 
      celebrate dal suo predecessore. Nella curia di Giovanni Paolo II nessuno 
      più di lui è stato libero e critico. E anche per questo Karol Wojtyla ne 
      aveva altissima stima. “L’amico fidato”: così egli definì Ratzinger nel 
      libro autobiografico “Alzatevi, andiamo”, un elogio mai dato a nessun 
      altro dei suoi collaboratori più stretti.  
       
      Da prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Ratzinger 
      criticò Giovanni Paolo II su più punti, anche i più qualificanti del suo 
      pontificato.  
       
      Al primo meeting interreligioso di Assisi, nel 1986, neppure andò. Vi 
      vedeva un offuscamento dell’identità del cristianesimo, irriducibile alle 
      altre fedi. Anni dopo, nel 2000, il documento che arrivò a spazzar via 
      ogni equivoco, la dichiarazione “Dominus Jesus”, uscì con la sua firma. 
      Scatenò una tempesta di polemiche. Ma il papa lo difese in pieno. E nel 
      2002, alla riedizione corretta del meeting di Assisi, anche Ratzinger 
      andò.  
       
      Un altro punto su cui il nuovo papa non era d’accordo con Giovanni Paolo 
      II sono stati i “mea culpa”. Anche numerosi altri cardinali dissentivano, 
      ma in pubblico tacquero, con la sola eccezione dell’arcivescovo di 
      Bologna, Giacomo Biffi, che mise nero su bianco le sue obiezioni 
      addirittura in una lettera pastorale ai fedeli. Ratzinger espose le sue 
      critiche in altro modo: in un documento teologico che rispondeva punto per 
      punto alle obiezioni correnti, dove però le obiezioni erano tutte 
      riccamente argomentate, mentre le risposte apparivano tenui e traballanti.
       
       
      Da cardinale, Benedetto XVI criticò anche la serie smisurata di santi e 
      beati elevati agli altari da papa Wojtyla: in molti casi “persone che 
      forse dicono qualcosa a un certo gruppo, ma non dicono troppo alla grande 
      moltitudine dei credenti”. In alternativa proponeva di “porre davanti agli 
      occhi della cristianità solo quelle figure che più di tutte ci rendano 
      visibile la santa Chiesa, tra tanti dubbi sulla sua santità”.  
       
      Il linguaggio politicamente corretto l’ha sempre ignorato. Nel 1984, in un 
      documento contro le radici marxiste della teologia della liberazione, 
      infilò una micidiale stoccata contro l’impero comunista, bollandolo come 
      “vergogna del nostro tempo” e “schiavitù indegna dell’uomo”. In quello 
      stesso periodo il presidente americano Ronald Reagan si scagliava contro 
      “l’impero del male”. Circolò la notizia che il cardinale Agostino Casaroli, 
      segretario di stato vaticano e tessitore di una politica di buon vicinato 
      con Mosca, avesse minacciato le dimissioni, per dissociarsi dal prefetto 
      della dottrina. Non era vero. In ogni caso cinque anni anni dopo il Muro 
      di Berlino crollò. Ratzinger s’è sempre distinto come uomo di grandi 
      visioni, non come uomo di governo. Amerebbe una Chiesa più snella. Le 
      istituzioni di cui essa si riveste al centro e in periferia, la curia 
      vaticana, le curie, le conferenze episcopali, non vuole che diventino 
      “come la corazza di Saul, che impediva al giovane Davide di camminare”.
       
       
      Anche per questo reagì con forza, nel 2000, quando un altro valente 
      arcivescovo teologo che gli era ed è amico, il tedesco Walter Kasper, gli 
      attribuì la volontà di identificare la Chiesa universale con il papa e la 
      curia, in pratica di voler restaurare il centralismo romano. Ratzinger 
      replicò confutando le tesi di Kasper. E questi intervenne di nuovo, 
      provocando un’ulteriore replica pubblica. Al centro della disputa, 
      combattuta a colpi di teologia d’alta scuola, c’era il rapporto tra la 
      Chiesa universale e le Chiese particolari, locali. C’era cioé la stessa 
      questione che, nei medesimi anni, gli esponenti dell’ala progressista 
      discutevano in termini più istituzionali e politici, propugnando una 
      democratizzazione della Chiesa, ossia un primato del papa bilanciato da un 
      maggior potere del collegio dei vescovi.  
       
      La controversia sui poteri nella Chiesa ha investito anche il conclave che 
      ha eletto Benedetto XVI, e a lui si è attribuito il rifiuto di una 
      maggiore collegialità: rifiuto che farebbe da ostacolo anche al dialogo 
      con le Chiese ortodosse e protestanti.  
       
      Ma la realtà è diversa. Proprio l’insospettabile Kasper, oggi cardinale, 
      chiamò “formula Ratzinger” una tesi sostenuta dall’attuale papa sui 
      rapporti con i cristiani separati, e la definì “fondamentale per il 
      dialogo ecumenico”. La tesi testualmente sostiene che “Roma deve esigere 
      dalle Chiese ortodosse per ciò che riguarda il primato del papa niente più 
      di ciò che nel primo millennio venne stabilito e vissuto”.  
       
      Nel primo millennio il collegio dei vescovi aveva un peso di gran lunga 
      maggiore. Sarà forse un conservatore come Benedetto XVI il papa che aprirà 
      la strada anche a questa riforma.  
       
       
      Piccola agenda del nuovo pontificato 
      Fresco d’elezione, papa Benedetto XVI ha 
      davvero il conclave alle spalle. Niente lo vincola più. Regole severissime 
      vietano ai suoi elettori di imporgli le decisioni da essi volute o le 
      nomine a loro gradite. Ed è questa una ragione in più dell’attenzione 
      spasmodica con cui tutti studieranno le sue prime mosse come capo della 
      Chiesa mondiale. Di colpo, davanti al nuovo papa si apre un’agenda 
      sterminata e tremenda, quella che Giovanni Paolo II gli ha lasciato in 
      eredità. Eccone un campione di voci, in ordine alfabetico.  
       
      ASSISI. È simbolo indimenticabile del 
      pontificato di Karol Wojtyla: i rappresentanti delle religioni mondiali 
      affiancati a pregare, nella città di san Francesco. Ma è anche uno dei 
      simboli più destabilizzanti: se ciascuna religione è via di salvezza in se 
      stessa, la Chiesa cattolica può chiudere le sue missioni nel mondo per 
      cessata ragione sociale. A correggere quest’esito c’è la dichiarazione 
      “Dominus Jesus” del 2000, che riafferma la fede in Gesù Cristo unico 
      salvatore di tutti gli uomini di ieri, di oggi e di domani. Il nuovo papa 
      proseguirà dunque nel dialogo interreligioso, ma terrà fermissimi 
      l’identità irriducibile del cristianesimo e il comandamento di Gesù di 
      predicare il Vangelo a tutti gli uomini della terra. “Dalai Lama e 
      musulmani compresi”, disse una volta il cardinale Giacomo Biffi.  
       
      CINA. Per la Chiesa di Roma 
      rappresenta un allarme doppio. Il primo è l’assenza di libertà per i 
      milioni di cristiani cinesi, siano essi clandestini o appartenenti alla 
      Chiesa “patriottica” messa in piedi dal regime. Non solo Giovanni Paolo II 
      non ha potuto metter piede in Cina, ma nemmeno è riuscito ad aver 
      garantita la facoltà di nominare i vescovi. Con le autorità di Pechino il 
      Vaticano s’è fin qui mosso come fece con l’impero sovietico negli anni più 
      bui, come allora con scarsissimi risultati. La differenza è che per il 
      gigante Cina non è in vista alcun crollo. Anzi. La sua ascesa come potenza 
      mondiale sfiderà la fede cristiana ancor più di quanto faccia l’islam. Ed 
      è il secondo allarme di cui il nuovo papa dovrà tener conto. Il credo 
      musulmano risveglia per contraccolpo l’identità cristiana. La religiosità 
      cinese no. Priva com’è di una fede in un Dio personale, può incoraggiarne 
      lo spegnimento.  
       
      CURIA. È il braccio esecutivo del 
      papa. Giovanni Paolo II se ne prese cura pochissimo, e il governo 
      ordinario della Chiesa ne soffrì parecchio. Ma dopo un pontificato 
      carismatico come il suo, fatto di spettacolari gesti simbolici, è naturale 
      che il successore riprenda in pugno con più continuità il timone 
      dell’istituzione. Tra un papa e l’altro i capi dei dicasteri di curia 
      decadono. Le prime vere nomine, dopo le iniziali riconferme di routine, 
      saranno il test di come il successore intende costruire la sua nuova 
      squadra di governo.  
       
      DEMOCRAZIA. Dentro la Chiesa e fuori. 
      Dentro, propriamente, ha il nome di collegialità. Ed è il particolare 
      equilibrio che intercorre tra il primato del papa e il collegio dei 
      vescovi. Giovanni Paolo II ha assunto quasi sempre da solo, e contro il 
      parere di tanti, le sue principali decisioni. Ogni uno o due anni 
      convocava un sinodo dei vescovi di tutto il mondo, ma poi, di nuovo, 
      decideva da sé. Il prossimo sinodo, già convocato, è in agenda per ottobre 
      e dal nuovo papa molti si aspettano che ne accresca il peso decisionale. 
      Un diverso equilibrio tra papa e vescovi è anche un passo obbligato per 
      avvicinare la Chiesa cattolica alle Chiese separate protestanti e 
      ortodosse. Quanto alle democrazie come sistemi politici, papa Karol 
      Wojtyla ne ha denunciati e affrontati a muso duro i “subdoli 
      totalitarismi”. Soprattutto le leggi che toccano la vita umana dal nascere 
      al morire saranno terreno minato anche per il suo successore.  
       
      DONNE. Sulle donne prete Giovanni 
      Paolo II ha calato un veto totale, valido anche per i papi futuri e 
      formulato con le parole delle proclamazioni infallibili “ex cathedra”. Ma 
      a prescindere dagli ordini sacri, per le donne nella Chiesa lo spazio è 
      apertissimo, in teoria. Nella pratica si vedrà. A Pechino, alla conferenza 
      internazionale sulla donna indetta dall’Onu nel 1995, a capo della 
      delegazione vaticana c’era una donna, l’americana Mary Ann Glendon 
      dell’università di Harvard. E da allora altre volte è capitato così. Su 
      questo terreno il nuovo papa è atteso alla prova e sarà giudicato da 
      un’opinione pubblica molto esigente.  
       
      
      EBREI. Papa Karol Wojtyla ha compiuto gesti straordinari di 
      riconciliazione con l’ebraismo. Benedetto XVI ha il non meno difficile 
      compito di renderli pratica costante della Chiesa nel suo insieme. La 
      discussione pubblica che c’è stata negli ultimi anni sulle radici 
      “giudaico-cristiane” dell’Europa un piccolo effetto collaterale l’ha 
      avuto, in questo senso: ha contribuito a diffondere l’idea che l’ebraismo 
      non è per i cristiani un’altra religione, ma il fondamento della loro 
      fede, da essa indissociabile, così come nella Bibbia l’Antico Testamento 
      fa tutt’uno col Nuovo. A complicare tutto c’è però l’Israele politico. Il 
      segretario di stato che il nuovo papa sceglierà e la linea che il Vaticano 
      adotterà in Medio Oriente incideranno anche sulla pacificazione religiosa 
      tra cristiani ed ebrei.  
       
      
      EUROPA. Benedetto XVI entra in carica fresco di sconfitta: il 
      mancato riconoscimento delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, nel 
      preambolo della nuova costituzione dell’Unione. Ma la Chiesa stessa non 
      appare in buona salute, nel Vecchio Continente. In molte nazioni del 
      Centroeuropa, in Spagna, in Polonia, gli indici di adesione alla Chiesa 
      sono in calo, qua e là molto netto. L’unica nazione in controtendenza è 
      l’Italia. Il nuovo papa avrà molto da faticare per risalire la china.  
       
      
      GIOVANI. Il prossimo agosto è in calendario a Colonia la Giornata 
      Mondiale della Gioventù, col papa atteso nel momento culminante. I 
      precedenti meeting sono stati invenzione personalissima di Giovanni Paolo 
      II e ne è nata una tipologia collettiva di giovani, i “papaboys”, 
      fortemente legata alla sua persona. Benedetto XVI dovrà rapidamente 
      decidere se imitare su questo punto il suo predecessore, oppure introdurre 
      delle varianti, oppure archiviare le adunate giovanili di massa. Andando 
      alla sostanza, dovrà soprattutto studiare come assicurare la trasmissione 
      della fede cristiana da una generazione all’altra, in un ambiente 
      culturale largamente scristianizzato.  
       
      
      HUMANAE VITAE. L’enciclica di Paolo VI del no ai contraccettivi 
      artificiali ha prodotto uno dei punti di rottura più forti degli ultimi 
      decenni tra il magistero papale e la pratica dei fedeli. Ma oggi il centro 
      focale della predicazione della Chiesa si è spostato: più che la pillola e 
      il preservativo, a concentrare l’interesse della Chiesa è la difesa della 
      vita di ogni nuovo nato, a partire dall’istante del concepimento. Il 
      risultato è che anche ai vertici della Chiesa si è ripreso pacatamente a 
      discutere il veto dell’”Humanae Vitae”: come non definitivo né rigido ma 
      aperto a future correzioni. Il cardinale Georges Cottier, teologo 
      ufficiale della casa pontificia, ha dato un primo segnale autorevole di 
      svolta un mese prima che Giovanni Paolo II morisse: ammettendo l’uso del 
      preservativo a difesa dall’Aids, in casi speciali accuratamente descritti. 
      Il nuovo papa è possibile che faccia ulteriori passi nella stessa 
      direzione.  
       
      
      INDIA. L’immenso paese di Gandhi è terra di frontiera importante 
      per la Chiesa nell’Asia, e preoccupa il papato di Roma per almeno tre 
      motivi. Il primo è che i cristiani che vi abitano sono spesso vittima 
      delle aggressioni dell’estremismo induista e dell’intolleranza delle 
      stesse leggi civili, che in molti stati vietano e puniscono pesantemente 
      il proselitismo, ossia l’azione missionaria della Chiesa. Il secondo 
      timore è legato alla prevedibile ascesa dell’India come grande potenza. Il 
      contatto tra l’Occidente cristiano e la cultura e la religiosità indiane, 
      marcatamente politeiste e inclusive, invece che rafforzare l’identità 
      cristiana tenderanno a depotenziarla e ad assorbirla, analogamente a 
      quanto si teme avverrà a contatto con la cultura della Cina. La terza 
      preoccupazione è più interna. Ampi strati della Chiesa cattolica 
      dell’India, compresi alcuni vescovi, propugnano un’idea di dialogo tra 
      cristianesimo e induismo che mette alla pari le due religioni e quindi 
      svuota di senso il proposito di battezzare nuovi cristiani, dato che agli 
      induisti basta già la loro fede. La “Dominus Jesus”, che ribadisce che 
      Cristo è l’unica via di salvezza per tutti, è stata scritta anche per 
      reazione a quanto avviene in India. Benedetto XVI dovrà decidere quali 
      conseguenze pratiche trarre.  
       
      
      ISLAM. Agli attacchi sferrati dall’islamismo estremista contro la 
      cristianità e l’Occidente, la Chiesa di Roma ha sin qui reagito con molta 
      cautela. Tra le sue finalità prime c’è quella di proteggere le minoranze 
      cristiane nei paesi musulmani. E tra i mezzi adottati ci sono quelli del 
      dialogo amichevole con esponenti islamici anche radicali e 
      dell’accettazione realista delle dittature che dominano in molti di quei 
      paesi. Questa linea, tuttavia, ha prodotto risultati deludenti ed è sempre 
      più in discussione. Il nuovo papa dovrà necessariamente andare oltre il 
      gesto simbolico compiuto da Giovanni Paolo II con la sua visita alla 
      Grande Moschea di Damasco. Sia sul terreno religioso che su quello 
      geopolitico.  
       
      
      LITURGIE. Le grandiose celebrazioni di massa care a papa Wojtyla 
      non potranno essere ripetute tali quali dal suo successore. E questo 
      modificherà la percezione visiva della Chiesa che i media mondiali 
      trasmetteranno. Un altro nodo critico, ancor più importante, riguarda il 
      modo di celebrare la messa in tutte le chiese piccole e grandi del mondo, 
      atto centrale del culto cristiano e parametro classico sul quale si misura 
      l’adesione dei fedeli alla Chiesa. Il prossimo ottobre un sinodo mondiale 
      dei vescovi discuterà assieme al nuovo papa proprio su questo. A giudizio 
      di molti, le novità introdotte nei sacri riti dopo il Concilio Vaticano II 
      si sono concretizzate in forme in parte devianti, che hanno a loro volta 
      influito negativamente sui contenuti e le pratiche della fede. Le 
      decisioni che il sinodo e il papa prenderanno per riqualificare la 
      celebrazione della messa saranno quindi decisive nel rimodellare il volto 
      concreto della Chiesa nei prossimi anni e decenni. La musica e l’arte 
      sacra fanno parte integrante di questo capitolo dell’agenda.  
       
      
      MEA CULPA. Le riserve che hanno sempre accompagnato, ai vertici 
      della Chiesa, le richieste di perdono pronunciate da Giovanni Paolo II per 
      le colpe della cristianità nella storia fanno prevedere che Benedetto XVI 
      si distaccherà su questo punto dal predecessore. L’interessante sarà 
      vedere come. Un’ipotesi da molti auspicata è che il nuovo papa concentri 
      l’attenzione sulle colpe dei cristiani d’oggi, e per queste chieda 
      perdono. La differenza è sostanziale. Il passato può essere bollato 
      d’infamia, ma non più modificato. Il presente sì. Un “mea culpa” relativo 
      al presente sarebbe vuota retorica se non accompagnato da atti di 
      effettiva riforma, nei campi che il nuovo papa riterrà prioritari.  
       
      
      PACE. All’opposto di tanti giudizi correnti, Giovanni Paolo II non 
      fu affatto un pacifista. Approvò lo spiegamento dei missili nucleari in 
      Europa contro la minaccia sovietica; disapprovò la prima guerra del Golfo; 
      ingiunse di “disarmare l’aggressore” che infieriva contro la Bosnia; si 
      dissociò dai bombardamenti di Belgrado; appoggiò l’intervento militare in 
      Afghanistan; contrastò la seconda guerra in Iraq; definì infine “operatori 
      di pace” i soldati rimasti in quello stesso paese a dar sicurezza alla 
      nascente democrazia. E ancora: ha beatificato Marco d’Aviano, la guida 
      spirituale della difesa di Vienna dall’assalto ottomano, fino alla 
      “vittoria di Dio”. Insomma, il penultimo papa ha lasciato in eredità un 
      modello d’iniziativa geopolitica molto dinamico, ma perfettamente in linea 
      con la dottrina classica della Chiesa sulla guerra. È impensabile che il 
      successore se ne distacchi.  
       
      
      RUSSIA. Il fatto che il nuovo papa non venga più dalla Polonia, 
      avversaria storica di Mosca, ha rimosso un grosso ostacolo. Ma il veto che 
      ha impedito a Giovanni Paolo II di metter piede in Russia resta lontano 
      dal cadere. I perché li ha ridetti con parole quasi brutali il patriarca 
      ortodosso di Mosca, Alessio II, in un’intervista pubblicata dieci giorni 
      dopo la morte di papa Wojtyla. Il suo primo capo d’accusa riguarda la 
      campagna di conversioni in Russia con la quale vescovi e preti della 
      Chiesa di Roma porterebbero via i fedeli alla Chiesa ortodossa. E il 
      secondo riguarda la Chiesa cattolica di rito orientale dell’Ucraina, vista 
      da Mosca come un patriarcato rivale proiettato alla conquista di un 
      territorio storicamente ortodosso. Benedetto XVI avrà molta difficoltà a 
      tranquillizzare il patriarca di Mosca, soprattutto sulla questione 
      dell’Ucraina. Qui, infatti, il papa si troverà sottoposto a due fortissime 
      pressioni uguali e contrarie: quella di Mosca e quella della potente 
      Chiesa cattolica ucraina, forte di milioni di fedeli.  
       
      
      SANTI. Una prima decisione di Benedetto XVI riguarderà proprio il 
      predecessore: se dar corso o no a un suo processo di beatificazione 
      accelerato. Ma poi, più in generale, egli dovrà decidere se porre un 
      freno, e come, al ritmo frenetico di proclamazioni di nuovi santi e beati 
      inaugurato da Giovanni Paolo II: che da solo ne ha portati agli altari più 
      di tutti i papi degli ultimi quattro secoli sommati, da quando cioè le 
      cause di santità hanno preso la forma canonica oggi in uso.  
       
      
      SCOMUNICHE. Il pontificato di Giovanni Paolo II è stato uno dei più 
      miti, sotto questo profilo. Tra i professori di teologia, il solo che 
      incorse in una temporanea scomunica fu un oscuro sacerdote dello Sri Lanka, 
      Tissa Balasuriya, reo d’aver negato la verginità di Maria e d’aver 
      dubitato della divinità di Gesù, ma poi ravvedutosi e perdonato. L’unica 
      grossa scomunica, tuttora in vigore, per la quale papa Wojtyla è passato 
      alla storia è quella comminata nel 1988 contro il vescovo 
      supertradizionalista Marcel Lefebvre e i suoi seguaci. I tentativi di 
      riportare i lefebvriani all’ovile sono in corso da anni e il nuovo papa 
      farà sicuramente altri sforzi per sanare la piaga.  
       
      
      VESCOVI. La Chiesa cattolica si regge sul papa e sui vescovi. Ma 
      questi ultimi, già messi sotto choc da uno straripante Giovanni Paolo II, 
      patiscono da qualche tempo un vincolo in più: quello delle conferenze 
      episcopali nazionali. Alcune di queste, specie nel Centroeuropa e nel 
      Nordamerica, sono diventate negli ultimi decenni macchine burocratiche 
      ipertrofiche, che producono commissioni e documenti in dosi sempre più 
      massicce e il più delle volte inutili. Se vorrà riprendere in pugno il 
      governo ordinario della Chiesa, tanto trascurato dal predecessore, 
      Benedetto XVI dovrà incidere col bisturi in queste nuove burocrazie 
      ecclesiastiche. I suoi migliori alleati saranno i vescovi migliori.  
       
      
      VITA. È parola entrata nel titolo delle encicliche più famose e 
      discusse di Paolo VI e di Giovanni Paolo II: l’”Humanae Vitae” del 1968 e 
      l’”Evangelium Vitae” del 1995. Ma anche per Benedetto XVI sarà parola 
      capitale. Anzi, lo sarà ancora di più, perché nel frattempo le bioscienze 
      hanno fatto passi giganteschi e sono diventate il nuovo verbo della 
      modernità. Verbo onnipotente, perché non solo interpreta l’uomo, ma decide 
      su di esso, e lo trasforma, e si appropria della sua stessa generazione. 
      Teologia e filosofia, politica e diritto, fede e costume: tutto entra in 
      gioco. Per la Chiesa è la sfida del secolo e il nuovo papa lo sa. 
       
      di Sandro Magister , 
      vaticanista de "L'Espresso". 
  
      
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