"Grido il Vangelo con la mia sola vita"

Parlava spesso della morte, Annalena Tonelli. Lo faceva con indignazione quando si trattava della morta degli altri, per le malattie e la guerra, per le ingiustizie e la cattiveria degli uomini. Lo faceva con estrema naturalezza quando parlava della propria morte, senza rassegnazione, ma come chi si affida completamente a un Altro e si prepara ad accedere alla vita vera. Annalena Tonelli è stata uccisa barbaramente il 5 ottobre a Borama, in Somaliland. Un colpo alla testa mentre usciva dall’ospedale che aveva creato e che era tutta la sua vita. Si dice che sia stata assassinata da un estremista islamico, o forse per vendetta. È morta là dove aveva scelto di vivere, in quella terra dura e ostile che è la Somalia, tra i “suoi” somali che ha amato per una vita intera. Una vita vissuta intensamente in nome di Dio e degli ultimi.

Annalena aveva sessant’anni. Trentaquattro li aveva trascorsi in Africa come missionaria laica, indipendente da qualsiasi congregazione, istituto missionario o organizzazione non-governativa. Era una donna fuori dal comune: intelligente, indipendente, piena di energie, lavoratrice indefessa e grande organizzatrice. Ma soprattutto si distingueva per la straordinaria dedizione ai suoi ammalati e per la profonda spiritualità, che l’avevano portata a scegliere gli ultimi in nome di Gesù, a consacrare in loro la sua vita affinché fosse degna di essere vissuta.

Sin da giovanissima aveva avvertito fortemente questa vocazione: a Forlì, nella sua città natale, aveva cominciato ad occuparsi dei bambini del locale brefotrofio, delle bambine con handicap mentale e vittime di grossi traumi di una casa famiglia e dei poveri del Sud del mondo attraverso le attività del “Comitato per la lotta contro la fame nel mondo” che lei stessa aveva contribuito a far nascere.

A un certo punto decide di partire. In testa e nel cuore Annalena ha i poveri dell’India; finisce invece in Africa. «Credevo di non potermi donare completamente rimanendo nel mio Paese – racconta in una toccante testimonianza resa in Vaticano nel 2001, in occasione di un convegno indetto dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute –. I confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici... Compresi presto che si può servire e amare dovunque, ma ormai ero in Africa e sentii che era Dio che mi ci aveva portata e lì rimasi nella gioia e nella gratitudine. Partii decisa a gridare il Vangelo con la vita sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Trentatré anni dopo grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a gridarlo così fino alla fine. Questa la mia motivazione di fondo assieme ad una passione invincibile da sempre per l'uomo ferito e diminuito senza averlo meritato al di là della razza, della cultura, e della fede».

Non è mera retorica. Chi ha avuto il privilegio di conoscere Annalena sa che più che alle parole era ai fatti che affidava la sua testimonianza di amore evangelico, di scelta totale per gli altri, per l’Africa, e in particolare per i suoi somali. Una testimonianza di vita – e di morte – in un contesto radicalmente musulmano, spesso difficile e ostile, ma anche ricco di una profondità umana e spirituale che solo dalla vicinanza con le persone poteva emergere.

«Scelsi di essere per gli altri – scriveva Annalena –, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati che ero una bambina e così sono stata e confido di continuare a essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null'altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale... anche se povera come un vero povero, i poveri di cui è piena ogni mia giornata, io non potrò essere mai».

A Borama, nel nord della Somalia, nell’auto-proclamata Repubblica del Somaliland, Annalena aveva creato un ospedale per la cura della tubercolosi, ma soprattutto aveva portato una luce di speranza per tanti ammalati, poveri, afflitti, diseredati… Un lavoro che le era valso la stima di gran parte della popolazione, ma che le aveva attirato anche l’odio e l’inimicizia dei settori più tradizionalisti della società e degli estremisti islamici.

L’avevano minacciata più volte. Lei ormai non se ne curava più. La sua lotta contro la tubercolosi, ma anche contro l’ignoranza e il pregiudizio e tutte le forme di miseria materiale e spirituale veniva prima di tutto. Annalena non era un medico. Era laureata in legge e abilitata all'insegnamento della lingua inglese nelle scuole superiori in Kenya. L’incontro con l’Africa e in particolare con i somali, la spingono a fare studi di medicina. Consegue certificati e diplomi di controllo della tubercolosi in Kenya, di Medicina tropicale e comunitaria in Inghilterra, di Leprologia in Spagna. Partì dall’Italia nel gennaio del 1969. Da allora e fino alla sua morte è sempre vissuta al servizio dei somali. Trentaquattro anni di condivisione. Annalena giunse dapprima in Kenya come insegnante, benché la cosa non le soddisfacesse fino in fondo. Ma era l’unico modo per potersi inserire in un contesto così diverso, in un’esperienza così forte, già allora pienamente consapevole che la cultura rappresentasse una forza potente di liberazione e di crescita.  

A Wajir, nel deserto a nord-est del Kenya, erano i tempi di una terribile carestia. Annalena lo rammenta con sofferenza, così come ricorda con struggimento le molte altre vittime della fame che ha incontrato nella sua esperienza africana, specialmente a Merca, in Somalia, agli inizi degli anni Novanta, «esperienze così traumatizzanti da mettere in pericolo la fede». Nei racconti di Annalena tornano spesso quei giorni a Wajir, quando per la prima volta donò il suo sangue a un bambino e invitò i suoi studenti a fare altrettanto.

La reazione fu scettica, ma quando uno di loro si fece coraggio anche altri riuscirono a superare i pregiudizi e le chiusure di quel mondo estremamente tradizionalista. «Fu forse la mia prima esperienza in cui, anche in un contesto islamico, l'amore generò amore». Era quello l’inizio di un lungo cammino, spesso segnato dalla sofferenza e dalla discriminazione, dal rifiuto e dalla diffidenza. Lei, donna, giovane, bianca e cristiana, senza marito e senza figli, era degna solo di disprezzo. Solo dopo molti anni, un vecchio capo locale ebbe il coraggio di dire ad alta voce quello che molti pensavano. «Noi musulmani abbiamo la fede, voi avete l’amore». «Fu come il tempo del grande disgelo – ricorda Annalena –. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro e sono madre autentica di tutti quelli che ho salvato, guarito, aiutato…». E sono soprattutto i “suoi” tubercolotici a considerarla una madre. Abbandonati e respinti perché “maledetti”, vittime della malattia, ma anche dello stigma che ad essa si accompagna, sono stati il “primo amore” di Annalena. «Quello che più spaccava il cuore era il loro abbandono, la loro sofferenza senza nessun tipo di conforto».

Nel 1976 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) le chiese di diventare responsabile di un progetto pilota per la cura della tubercolosi tra i nomadi. Oggi il trattamento messo a punto dalla Tonelli – che consente la guarigione in un tempo di sei mesi – è stato adottato come policy dall'Oms per il controllo della tubercolosi nel mondo ed è applicata in molti Paesi dell'Africa, dell'Asia, dell'America e anche dell'Europa.

Nel 1984 Annalena fu costretta a lasciare il Kenya dopo aver denunciato i massacri che il governo stava commettendo contro una tribù di nomadi del deserto. Fu considerata persona non grata ed espulsa. Solo dopo 16 anni il governo keniano ha ammesso le proprie responsabilità. «Ho esperimentato più volte nel corso della mia ormai lunga esistenza – scriveva – che non c'è male che non venga portato alla luce, non c'è verità che non venga svelata. L'importante è continuare a lottare come se la verità fosse già fatta e i soprusi non ci toccassero, e il male non trionfasse. Un giorno il bene risplenderà».

Quando torna in Africa, è di nuovo per stare con i somali. Annalena è a Mogadiscio agli inizi del 1991, nei momenti più drammatici della caduta di Siad Barre. È tra i pochissimi occidentali rimasti in città, in quei giorni di morte e distruzione, in cui tutti erano contro tutti.

«Ci incontrammo a Nairobi – ricorda mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio –. Io ero stato tra gli ultimi a scappare dalla Somalia. Lei stava cercando in tutti i modi di rientrare. Era fatta così, desiderava sempre stare al fianco dei più poveri, dei più sofferenti, di quelli che lei chiamava “brandelli di umanità” e che amava profondamente». Mons. Bertin le è stato vicino in tutti questi anni, sostenendola materialmente e spiritualmente. E oggi che Annalena non c’è più sta facendo il possibile per dare un futuro alle sue opere. Entrambi hanno condiviso la stessa passione e la stessa abnegazione per la Somalia e soprattutto per un popolo che ha subito troppi torti e soprusi.

Annalena li ha sperimentati in prima persona nei momenti più tragici della guerra civile. Dopo Mogadiscio, si stabilisce a Merca, sempre ad occuparsi di tubercolotici, ma anche di migliaia di persone che morivano a causa di una terribile carestia. «A quel tempo – ci racconta – ho dovuto assumere due persone solo per seppellire i morti. In poco più di due mesi oltre mille bambini sono morti di fame e di tubercolosi. In casa tenevo 600 piccoli tubercolotici per cercare di assisterli giorno e notte e ogni giorno sfamavo oltre tremila persone».

Annnalena ricorda le lunghe giornate rinchiusa nell’ospedale senza neppure attraversare la strada per poter tornare a casa perché era troppo pericoloso. Finché la situazione è diventata insostenibile e le pressioni dei diversi gruppi si sono fatte inaccettabili, al punto che era impossibile rimanere senza compromettersi con questo o quel clan, senza pagare una tangente o subire il ricatto di qualche gruppo armato. Annalena decide di andarsene. Il medico italiano che la sostituisce, Graziella Fumagalli di Caritas italiana, verrà uccisa pochi mesi dopo.

Annalena torna in Italia per un anno “sabbatico” che trascorre in un eremo. Nel 1996 è di nuovo in Somalia, ma questa volta al nord, in Somaliland. E' l'unica cristiana di tutta la regione. A Boroma, al confine con l’Etiopia, crea un centro anti-tubercolare d’avanguardia e promuove molteplici iniziative collaterali (la scuola per sordomuti, la campagna contro le mutilazioni genitali femminili, un progetto di sensibilizzazione sul problema dell’aids, campagne di operazioni di ciechi, assistenza ai malati mentali…).

Tutti la conoscono e la rispettano, ma c’è anche chi non sopporta la straniera “infedele”, che dà fastidio alle fasce più tradizionaliste della società e agli estremisti islamici, che non vedono di buon occhio la presenza di questa donna cristiana, che cerca di rompere un ordine stabilito da sempre e soprattutto di mettere in discussione il loro potere. Le minacce piovono da più parti. «Un imam – ci racconta – predicava contro di me dalla moschea, dicendo di uccidere la bianca infedele che aveva portato l’aids e la tubercolosi e che accoglieva in nemici in ospedale. L’ho voluto incontrare e gli ho detto che lui mi aveva già uccisa con le sue parole. Da quel momento siamo diventati amici e lui è diventato uno dei miei più grandi sostenitori».

A Borama, Annalena era riuscita a fare un lavoro enorme, trasformando il piccolo ospedale coloniale nel miglior centro antitubercolare di tutta la Somalia, con oltre 300 posti letto, personale specializzato e un laboratorio di analisi avanzato. Si era battuta per combattere la tubercolosi e l’Aids, ma anche i pregiudizi e l’ignoranza che accompagnano queste malattie. «La tubercolosi – scriveva – è parte della gente, della sua storia della sua lotta per l'esistenza. Eppure la tubercolosi è stigma e maledizione: segno di una punizione mandata da Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto. A Borama continua la lotta ogni giorno per la liberazione dall'ignoranza, dallo stigma, dalla schiavitù ai pregiudizi. A tutt'oggi, noi siamo testimoni di gente che sceglie di non essere diagnosticata, curata e guarita, e che dunque sceglie di morire pur di non dovere ammettere in pubblico di essere affetta dalla tubercolosi. Ogni giorno discutiamo con loro di ciò che li tiene schiavi, infelici, nel buio. E loro si liberano, diventano felici, sono sempre più nella luce».

Anche a Borama però le tensioni aumentano, specialmente dopo l’11 settembre – e soprattutto dopo l’attacco americano all’Afghanistan. Negli ambienti del fondamentalismo islamico cresce l’ostilità nei confronti della straniera cristiana, che pure non fa nulla per mostrare in pubblico la sua fede. Annalena sente l’ostilità, ma resta capace sino all’ultimo di distinguere: la popolazione, gente semplice che pratica un islam moderato e tolleranti, dai gruppi di fanatici estremisti, spesso finanziati e indottrinati dall’esterno.

E non si stanca di ripetere che il dono più grande glielo hanno fatto i suoi nomadi del deserto: «Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l'abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato a tutto fare, tutto incominciare, tutto operare nel nome di Dio».

di Anna Pozzi

INDIETRO