Il rabbino scomparso

Un imbarazzato silenzio è sceso da decenni sulla vicenda di Israel Zolli, rabbino capo di Roma che nel 1945 aderì al cattolicesimo. Alla diffamazione di cui fu fatto oggetto all’epoca, si aggiunge la “censura” dei suoi scritti. Adesso, un libro francese tradotto in italiano fa riscoprire la sua ricca figura.


Nell’aprile del 1986 quando Giovanni Paolo II, primo Papa nella storia, entrò in una sinagoga – quella di Roma, della cui diocesi è vescovo – sulla porta fu accolto dalla massima autorità religiosa, il rabbino capo, allora (e per molti anni ancora, malgrado l’età già avanzata) Elio Toaff. Nei molti commenti di stampa e di televisione dell’epoca, non ricordiamo di averne trovato uno, che pure sarebbe stato assai significativo: se il professor Toaff era lì, assai cordiale nonché vivo e vigoroso, il merito lo si doveva a un uomo di Chiesa, a un prete. L’episodio, in effetti, era già noto ma è stato raccontato ancora una volta dall’interessato in una intervista al quotidiano la Repubblica del 27 gennaio 2001.

Ecco le parole testuali: «Non potrò mai dimenticare chi mi salvò la vita quando ero rabbino ad Ancona. Abitavo a cento metri dalla chiesa del Gesù, dove c’era un prete dall’aspetto minuto, don Bernardino, con il quale avevo fatto amicizia. Spesso conversavamo, facevamo insieme una passeggiata. Una mattina, mentre tornavo dalla preghiera nel tempio, don Bernardino mi venne incontro per strada e con cenni e con qualche parola concitata mi impose di fermarmi. Io gli chiesi: “Don Bernardino che c’è, che è successo?”. E lui: “Attento, maestro Elio, a casa sua ci sono i tedeschi che l’aspettano, mi segua, venga in sagrestia con me”. Andai con lui, che mi nascose e poi mi aiutò a scappare; e, così, mi sono salvato». È noto che pratica costante dei tedeschi, che fu seguita, dove fu loro possibile, anche in Italia, era di fucilare subito, appena giunti, il rabbino locale, mentre gli altri ebrei sarebbero stati deportati, ma con più comodo. Dunque, il “mi sono salvato” non è certo esagerato. Non basta: come ha ricordato di recente lo stesso Toaff alla presentazione di un libro dal titolo significativo (Gli ebrei salvati da Pio XII), un altro sacerdote, don Francalacci, nascose e salvò i suoi genitori, la moglie e il figlio che erano rifugiati a Pietrasanta.

Insomma, tutta intera la famiglia del futuro rabbino-capo della città del Papa dovette la vita a dei preti.

Come avvenne a ben 4.447 ebrei (cifre della stessa Comunità Israelitica) nella sola città di Roma, escludendone i dintorni, soprattutto i Castelli, che pullulavano di rifugiati, anch’essi spesso al riparo delle molte case di vacanza e di esercizi spirituali degli Ordini religiosi. Giusto, dunque, che quando morì Pio XII, Elio Toaff gli abbia reso omaggio con una dichiarazione che fu ripresa da tutti i giornali italiani dell’11 ottobre 1958 e che diceva: «Più di qualunque altro, noi ebrei italiani abbiamo avuto modo di beneficare della grande e caritatevole bontà e della magnanimità del rimpianto Pontefice, durante gli anni della persecuzione e del terrore, quando ogni speranza sembrava essere morta per noi».

Come si vede, erano ancora lontani i tempi dei sospetti, delle accuse, magari delle invettive contro papa Pacelli e i suoi “silenzi”. Per restare al rabbino Toaff, quando cominciò la campagna di denigrazione contro il grande Papa della Seconda Guerra mondiale, rilasciò un’altra dichiarazione, che sta sull’Osservatore Romano del 28 giugno 1964 e che dice: «La Comunità israelitica di Roma, dove è sempre vivissimo il senso di gratitudine per quello che la Santa Sede ha fatto in favore degli ebrei romani, ci ha autorizzati a riferire in maniera più esplicita la convinzione che quanto è stato operato dal clero, dagli istituti religiosi e dalle associazioni cattoliche per proteggere i perseguitati non può essere avvenuto che con la espressa approvazione di Pio XII». Come si vede, un vero e proprio comunicato ufficiale che è un peccato non vedere mai citato, malgrado vadano avanti da anni (e, anzi, sembrano diventare sempre più faziose) le polemiche sul pontefice di cui è in corso il processo di beatificazione. Ma, quando, in quel giorno di primavera, Giovanni Paolo II varcò le porte della sinagoga romana, ci fu qualcos’altro che non fu citato.

E non sorprende, perché si tratta di un nome e di una storia su cui è caduto il più rigoroso silenzio: da parte ebraica, com’è umano e comprensibile. Ma anche da parte cattolica: e questo sorprende un po’ di più. In effetti, quanti sanno che il predecessore di Elio Toaff ai tempi di Pio XII, cioè il rabbino capo Israel-Italo Zolli, nel 1945 non solo chiese di diventare cattolico (seguito dalla moglie e dalla figlia) ma, al battesimo, volle addirittura assumere il nome di Eugenio in onore di papa Pacelli per la carità mostrata durante la persecuzione verso il suo popolo? Qui, siamo addirittura al rovesciamento – e operato al livello più alto – della “leggenda nera” pacelliana! Il “caso Zolli” è tra i più singolari, dicevamo, anche per la rimozione totale che ha subìto: a oltre mezzo secolo dal battesimo che ricevette in una cappella laterale della basilica romana di Santa Maria degli Angeli, soltanto ora esce un piccolo libro a lui dedicato. E non è di un autore italiano, come sembrerebbe ovvio, bensì di una ebrea americana che vive in Francia e che si è convertita ella pure al cattolicesimo. La donna si chiama Judith Cabaud, il libro è pubblicato in questo mese di marzo dalle Edizioni San Paolo e ha per titolo Il rabbino che si arrese a Cristo. Ho scritto io stesso la prefazione. Anzi, quest’estate, approfittando delle vacanze, ho voluto conoscere questa signora che ha nove figli, uno dei quali sacerdote. Abita, con il marito, in una sorta di affascinante e un po’ cadente castello neomedievale, in stile “wagneriano”, nel centro della Francia, vicino a La Palisse, il cui antico feudatario è legato (peraltro, per un equivoco) all’idea di cose banali: lapalissiano…

Tutt’altro che banale, invece, è il libro e la storia che racconta. Madame Cabaud, cresciuta in una famiglia di ebrei osservanti originari della Polonia e immigrati a New York, ha deciso di scrivere una biografia di Zolli perché si è riconosciuta nel suo percorso. Anche per lei, infatti, la richiesta del battesimo è stata un punto di arrivo, logico e coerente, del suo esser ebrea. In effetti, il rabbino capo di Roma rifiutò sempre con fermezza di essere considerato un “rinnegato” che aveva abbandonato la fede dei suoi padri: «La mia», ripeteva, «non è stata una conversione, è stato un arrivo là dove mi portava irresistibilmente lo studio delle profezie messianiche nella Scrittura». Zolli, in effetti, fu un grande biblista. Nel 1938, quando era rabbino capo a Trieste e non era ancora stato chiamato a Roma, pubblicò un libro, Il Nazareno, presso una piccola casa editrice di Udine. Quel libro non è stato più ristampato, alla pari di tutti i suoi altri (non solo sulla sua vita ma anche sulla sua opera si è fatto calare il silenzio) ed è un vero peccato: in effetti, grazie alla sua grande preparazione nella letteratura religiosa ebraica, di cui era docente all’università di Padova, Zolli legge la figura di Gesù nella prospettiva stessa del suo popolo, mostrandone la novità e la straordinarietà e insieme la continuità rispetto all’insegnamento di Israele. E pur continuando onestamente il suo impegno di capo religioso della sua Comunità, si sentiva «cristiano proprio perché ebreo coerente, perché israelita sino in fondo». Non era, la sua, una “doppia vita”, in quanto non sentiva contraddizione tra la Scrittura ebraica e il suo proseguimento e completamento in quella cristiana.

Anch’egli, però, come Henri Bergson non volle chiedere il battesimo in anni così drammatici per il suo popolo. Quando, a guerra finita, si saprà della sua richiesta di battesimo, si scatenerà contro di lui una campagna di calunnie anche a proposito della sua gestione della Comunità nei mesi tragici dell’occupazione nazista di Roma. Stando alla biografia della Cabaud si tratta di accuse ingiuste se non di diffamazioni per squalificare “l’apostata”. Tra l’altro, quando i nazisti imposero agli ebrei romani una taglia di 50 chili d’oro da consegnare in poche ore, fu Zolli che corse in Vaticano a chiedere l’aiuto del Papa: aiuto che fu subito concesso, anche se non fu poi necessario. In effetti, quella grossa quantità di metallo prezioso era stata già messa insieme anche grazie al contributo di sacerdoti e di organizzazioni cattoliche.

A interrompere il suo servizio di rabbino capo provvide il Cristo stesso (di questo il Nostro fu sempre certo) nel giorno dell’espiazione, lo Yom Kippur del settembre del 1944, il primo dopo la fine delle leggi razziali fasciste e della persecuzione nazionalsocialista. A metà, circa, della lunga liturgia, proprio nel centro della grande sinagoga sul lungotevere, il Gran Rabbino, rivestito dei solenni paramenti sacri, scorse Gesù rivestito di una lunga tunica bianca che gli disse: «Tu sei qui per l’ultima volta». A Zolli non restava che ubbidire, pur sapendo che le conseguenze sarebbero state pesanti. Dopo una campagna di diffamazione, dopo tentativi di convincerlo a rientrare (stando alla testimonianza del gesuita Paolo Dezza, futuro cardinale, ebrei americani vennero apposta a Roma offrendogli quel che volesse purché ci ripensasse), seguì una damnatio memoriae talmente rigorosa che il racconto della sua conversione, Prima dell’alba, uscì negli Stati Uniti e non è mai stato tradotto in italiano. Come mi diceva Judith Cabaud nel nostro incontro in Francia: «Chissà se, entrando in quel tempio nel 1986, Giovanni Paolo II sapeva che, stando alla testimonianza, sempre lucidamente ripetuta, di Zolli, proprio lì era apparso il Cristo di cui il Papa è Vicario! In effetti, è tale il silenzio calato su quella vicenda che non mi stupirei se il Papa stesso ne avesse soltanto qualche notizia magari imprecisa».

Nella prefazione che ho scritto per il libro che esce proprio ora e che, per la prima volta, rompe quel silenzio più che cinquantennale ho ritenuto doveroso avvertire: «Si rassicuri chi tema che l’autrice – magari con l’indiscreto fervore dei neofiti – voglia erigere vecchi steccati. Al contrario, suo desiderio è di abbatterli, spingendo a riflettere sulla possibilità, che in lei si è fatta vita piena, che (per dirla con il “suo” Pascal, ma anche con quel “fariseo figlio di farisei” che fu Paolo di Tarso), il “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe” altro non sia che il “Dio di Gesù Cristo”». E ho aggiunto che riscoprire la straordinaria avventura di quest’uomo è, in fondo, opera davvero ecumenica: nessuno, infatti, più di uno straordinario biblista ebreo come Zolli può aiutarci a riscoprire quella radice ebraica che sorregge e nutre la fede cristiana, come ricorda san Paolo. Nessuna polemica, dunque, e nessuna troppo facile apologetica nel riscoprire questo caso e nell’augurarci che i cattolici ne traggano profitto spirituale e intellettuale, magari ripubblicando i libri di Zolli: semmai, un’opera di verità, di giustizia. E anche di dialogo autentico che non può sussistere là dove ci sono rimozioni e cose non chiarite.

Renzo De Felice, in quel suo “classico” che è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo dà una clamorosa conferma al silenzio su Zolli: questi, pur essendo stato un protagonista del periodo che lo storico vuole ricostruire, non è mai (dicesi: mai) citato, se non in una nota bibliografica. De Felice, però riporta una lettera di don Giuseppe De Luca, grande prete e grande studioso, una delle maggiori personalità cattoliche nella prima metà del XX secolo. È una lettera a uno dei maggiori gerarchi fascisti, Giuseppe Bottai, allora ancora Ministro dell’Educazione Nazionale e porta la data del 13 aprile 1942, quando la Germania nazista era nel pieno della potenza e, soprattutto all’Est, portava avanti con spietatezza la sua politica razziale. Varrà la pena citare qualche brano di quel messaggio perché dà un’idea precisa (e spesso misconosciuta) di quale fosse la prospettiva di un sacerdote assai vicino alla Curia e stimatissimo in Vaticano.

Scrive dunque, tra l’altro, don De Luca: «Il primo tema che non riesco a togliermi dal capo è questo: che noi, in Italia, abbiamo accolto come cosa nostra un motivo di pensiero e di azione che non potrà mai essere nostro: la polemica della razza (…). Non si condanna se non chi è colpevole: ora, chi può ritenersi colpevole di esser nato di una o di un’altra razza? Questo è umano, è cristiano, è romano: condannare il crimine o il delitto, non un sangue (…). Con la tradizione romana e cattolica noi potevamo e possiamo dire che nessuna razza è fuori degli uomini, se è razza umana. Meno che mai può esserlo una razza a cui gli uomini debbono tanto. Senza dire che condannare una razza significa condannarle tutte, fuorché la propria: e noi, quale esalteremo? la razza germanica? allora condanneremo la nostra. La nostra? e allora condanneremo la germanica, le balcaniche ecc. ecc. (…). Il fondamento di codeste discriminazioni razziali non soltanto è incertissimo, degno di uomini di nessuna cultura e civiltà, non soltanto è iniquo, ma porta a conseguenze paurose se applicato; e se non applicato ci porta a passare per inetti (…). Possibile che dobbiamo, noi italiani, partecipare a grosse bestialità d’origini bassamente socialistiche, che puzzano di università popolari e di materialismo volgare? Una legislazione che fosse rispettosa dell’umanità in tutti e mirasse soltanto a colpire le colpe con estrema severità, non sarebbe sufficiente (anzi, tanto più utile) a difendere la nazione? E non inaugurerebbe una concezione nuova nel mondo, tra i due estremi del semitismo e antisemitismo, cioè individuare le colpe, non incriminare un sangue? (…) Perché nessuno deve dire a Mussolini queste cose e lasciargli prendere decisioni così gravi senza un consiglio, solo contentandosi di riecheggiarlo e così goffamente da rendere ridicolo lui e noi?».

© Jesus 2004, di Vittorio Messori.
 

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