Il ritorno a Nazareth (Mt 2,19-23) 

La vita della Sacra Famiglia in Egitto non è stata corredata da ulteriori particolari: i Vangeli non aggiungono altro, se non che furono costretti a fuggire a causa di Erode. Che cosa fecero? Dove vissero e quanto tempo rimasero in Egitto? Matteo non specifica nulla, non tratteggia nessuna vicenda della fuga a parte la causa della stessa.

La prima difficoltà che si dovette presentare alla Sacra Famiglia fu proprio la loro stessa sopravvivenza. Il bisogno principale era il lavoro. Se Giuseppe, che era un falegname, fosse riuscito a trovare presto un lavoro avrebbero avuto qualche possibilità…altrimenti tutto sarebbe potuto accadere sino alle estreme conseguenze.

La Divina Provvidenza, che aveva previsto la loro fuga, tramite i doni dei re Magi permise loro di poter affrontare le difficoltà dei primi tempi; poi avrebbero dovuto proseguire il viaggio in Egitto cercando di cavarsela come potevano.

Perché indico la loro permanenza in Egitto come un viaggio continuo? E non come un periodo di permanenza in un preciso, anche se a noi sconosciuto, luogo?

Per questi semplici motivi. Duemila anni fa, in Egitto come in tutto il resto del mondo, la vita era ben diversa da quell’odierna. Questo è perfettamente comprensibile. Vi erano poche città e queste erano formate da agglomerati di persone le quali vivevano per lo più con baratti o scambi. I più fortunati avevano imparato un mestiere che gli consentiva di vivere mentre altri erano commercianti. Infine pochi ricchi e potenti, oggi come allora, approfittavano dei poveri. Un’infinità di poveri che stentava a sopravvivere.

Se Giuseppe si fosse recato, con la sua famiglia, in una città avrebbe avuto poche possibilità di poter mettere in atto la sua arte di falegname. Vi erano già dei falegnami ed i suoi abitanti non avrebbero certo dato dei lavori, per quanto semplici, ad uno straniero. Non conoscendo la lingua, inoltre, le difficoltà sarebbero state ancora maggiori.

Ragioniamo anche sull’aspetto, come dire, religioso della questione. Giuseppe era ebreo e gli ebrei in Egitto erano stati cacciati, molto tempo prima, per via delle famose piaghe che imperversarono in Egitto al tempo di Mosé.  La memoria storica degli egiziani sarebbe stata un’ulteriore bastone tra le ruote. Per queste ragioni sembrerebbe molto più probabile che Giuseppe abbia preferito spostarsi in luoghi dove avrebbe potuto trovare più facilmente qualche lavoro per sostenere la sua famiglia. Quale poteva essere, in questo caso, il rovescio della medaglia? In un piccolo villaggio, forse, sarebbe stato più semplice trovare qualcuno che gli ordinasse un lavoro ma nello stesso tempo questo sarebbe stato anche minore. Questo ragionamento ci porta a concludere che la Sacra Famiglia molto probabilmente si spostò di villaggio in villaggio, magari toccando anche sporadicamente delle città, dove Giuseppe andò chiedendo di volta in volta di poter essere utile con la sua arte. Egli avrebbe potuto fare in sostanza di tutto: dal riparare una vecchia porta al costruire una finestra, dal riassettare un tetto al sistemare una sedia.

Di volta in volta avrebbe potuto farsi pagare anche con l’ospitalità, sua e della sua famiglia, nella casa dove aveva trovato occasionalmente lavoro. Così, di paese in paese e di località in località, essi avrebbero potuto affrontare quella situazione che li aveva visti proiettati improvvisamente al di fuori della loro terra, delle loro tradizioni e della loro cultura.

Cosa non fece Giuseppe per custodire la sua famiglia…quante umiliazioni dovette subire e quante volte, dopo il lavoro commissionato, non ricevette il compenso pattuito. I disonesti esistevano anche duemila anni fa, e non credo che Giuseppe in Egitto non li abbia mai incrociati.

Ma Giuseppe oltre la sua mitezza che non gli permetteva di reagire ai soprusi, oltre al fatto che si trovava in un paese straniero, oltre che nella sua condizione non avrebbe potuto chiedere aiuto a nessuno, oltre che si dovette accontentare di ogni miseria ricevuta e ringraziare di ogni cosa che gli fosse offerto, aveva anche la grande responsabilità di custodire il Figlio di Dio e sua Madre. Questo non lo dimenticò mai. Anzi, era proprio questa la forza interiore di Giuseppe, l’idea fissa che gli permise di poter sopportare tutto quello che era quotidianamente costretto a subire. Tutte le sue stanchezze, le afflizioni e gli affanni svanivano come neve al sole quando si trovava, la sera dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, insieme alla sua famiglia. Egli si beava della visione di Maria che accudiva il suo Gesù. E Gesù, intanto, cresceva giorno dopo giorno in quella terra straniera; in quella casa che sarebbe stata la loro ancora per poco tempo, per poi chissà dove andare nuovamente. Per poi chissà dove proseguire in quel loro faticoso peregrinare.

Quanto tempo durò il loro esilio forzato non è possibile saperlo con precisione, ma è ammissibile ipotizzare che Gesù potesse avere non meno di due anni quando ritornarono in Palestina. Questa sicurezza è data dal fatto che il re Erode morì a Gerico ai primi di aprile del 750 (dall’inizio della fondazione di Roma), dopo sei mesi di atroce malattia. (L'inizio dell'era cristiana fu ritardato di quattro anni per un errore di calcolo attribuito al monaco scita Dionigi il Piccolo, morto nel 556, il quale datò al 754 di Roma la morte di Erode il Grande). Secondo i calcoli fatti dagli studiosi la nascita di Gesù e da inquadrarsi quindi con una buona approssimazione tra il 747-748 di Roma (= 7-6 a. C.), quindi tra i due ed i tre anni prima della morte di Erode.

Giuseppe ricordava molto bene la frase dell’angelo in sogno:“ …e resta là finché non ti avvertirò”. Ogni giorno sperava che fosse l’ultimo. Ogni giorno pregava il Signore, insieme a Maria, perché potessero finalmente ritornare nella loro terra senza pericoli per il bambino.

Ecco che quel giorno, finalmente, giunse.

“Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse:”Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e và nel paese d’Israele; perché sono morti coloro che volevano la vita del bambino”.

Quale fu la felicità di Giuseppe al risveglio da quel sogno è solo lontanamente comprensibile. Dopo tanto viaggiare, dopo tanto soffrire, si era nuovamente aperta la via di casa: Israele.

Quella parola lo aveva lasciato in uno stato di estasi, ancora non si era perfettamente reso conto che era giunto il momento tanto atteso del loro agognato ritorno.

Una particolarità dei discorsi angelici nei confronti di Giuseppe, su cui è conveniente soffermarsi un attimo, sono le indicazioni riguardo Maria e Gesù. L’angelo, sia nel sogno precedente la fuga in Egitto che in quello relativo al loro ritorno in patria, indica sempre Maria e Gesù come “il bambino e sua madre”. Egli non dice “prendi tua moglie e tuo figlio” ma concepisce la frase in modo tale da richiamare l’estraneità di Giuseppe nei confronti del mistero dell’incarnazione. L’incarnazione è qualcosa che appartiene solo ed esclusivamente a Maria e Gesù, il quale rappresenta il frutto concreto dell’incarnazione per mezzo dello Spirito Santo. L’angelo non vuole sminuire l’importanza di Giuseppe ma richiamare alla mente il suo ruolo di protettore della Sacra Famiglia, di cui fa parte a tutti gli effetti, nonostante non sia il padre fisico di Gesù. Inoltre la frase dell’angelo induce a riflettere maggiormente su quel legame particolare che legò Gesù e Maria dal momento stesso del concepimento.

Maria tramite il suo corpo ed il suo sangue ha donato a Gesù la vita corporea facendolo nascere a questo mondo.

Giuseppe non attese oltre:”…alzatosi, prese con sé il bambino e sua madre, ed entrò nel paese d’Israele”.

Giuseppe e Maria tornano con tante speranze nel cuore, con tante domande ma ancora con tanta angoscia per il pericolo che aveva sfiorato il loro Gesù a causa di Erode. Questa angoscia li porta ad informarsi, non appena superato il confine con l’Egitto, su chi sia stato il successore del re deceduto: “Avendo però saputo che era re della Giudea Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi”.

Giuseppe, dopo aver saputo che al posto di re Erode era succeduto suo figlio, sente un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Egli pensò che il figlio avrebbe in ogni caso continuato la persecuzione del padre; si sentì perso e cercò con lo sguardo Maria per capire cosa ella volesse fare. Ma le decisioni sulla sua famiglia riguardavano solo lui, era lui il custode, era lui il padre di Gesù e lo sposo di Maria. Avevano sognato tanto, durante tutti quei mesi, la loro casa a Nazareth che li aspettava ed ora la vedevano nuovamente così lontana.

Il fedele compagno di Maria non sa quale decisione sia la più saggia da prendersi, continua a rimuginare sul da farsi ma tutte le strade, tutte le possibilità gli sembrano nuovamente precluse. Tornare a Nazareth non gli sembra una buona idea perché il re poteva aver mandato, durante la loro assenza, qualcuno a sorvegliare la loro casa per scoprire un loro eventuale ritorno; tornare a Betlemme era ancora più pericoloso perché il suo potere nella zona era molto maggiore. Cosa fare? Tornare in Egitto? Questo non lo avrebbe più potuto fare perché l’angelo era stato chiaro nel suo ordine perentorio…e allora?

Giuseppe non riesce a trovare una risposta, non ha le idee chiare su cosa fare e non riesce a decidere riguardo dove portare la sua famiglia per evitare pericoli a loro stessi e, soprattutto, a Gesù.

Giuseppe è stanco, confuso, timoroso. Il mondo, dopo aver saputo del figlio di Erode, gli crolla addosso. Egli si ritrova con le spalle al muro impossibilitato nel decidersi per una direzione da seguire; ogni scelta sembra che celi un inganno, ogni direzione un pericolo. Il padre di Gesù si ritrova nell’angoscia più profonda perché comprende che da una sua decisione sbagliata può dipendere la vita di tutti loro e del Figlio di Dio.

Il cielo vede, il cielo ascolta le sue tribolazioni interiori e decide di intervenire per liberare Giuseppe da tutti i suoi dubbi e paure: “Avvertito poi in sogno, si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazareth, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti:”Sarà chiamato nazareno”.

Dio, attraverso un sogno, gli mostra nuovamente la via da seguire, lo distoglie dalle paure e lo incoraggia a proseguire verso la strada di casa. Giuseppe si era momentaneamente perso e Dio lo ritrova.

Riflettiamo su quello che l’angelo gli aveva detto quando erano ancora in Egitto:”Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e và nel paese d’Israele; perché sono morti coloro che volevano la vita del bambino”. L’angelo non specifica in quale paese andare, una volta giunti in Israele, perché questo è sottinteso. Mi sembra chiaro che se Maria e Giuseppe provengono entrambi da Nazareth al loro ritorno sia quella, apparentemente, la loro unica e logica meta. A meno che…qualcosa non faccia mutare idea a Giuseppe, colui che guida lungo le strade del mondo la Sacra Famiglia: il timore per la vita di Gesù. Questo timore, evidentemente, non era stato previsto dall’angelo inviato da Dio a Giuseppe. Se così non fosse gli avrebbe detto subito:”Vai in Israele e torna a Nazareth senza paura…”, o qualcosa del genere. Invece niente. Nessun accenno alla destinazione ultima che, appunto, era sottintesa.

Ma allora Giuseppe non ha abbastanza fede per credere alle parole dell’angelo? Giuseppe non ha fede, quindi, in Dio?

Sembrerebbe di sì. Solo che il timore di Giuseppe non è un timore per sé stesso bensì è un timore rivolto nei confronti della persona di Gesù. Il suo senso di responsabilità è talmente elevato che, in questa particolare occasione, la sua fede è oscurata dall’angoscia per i pericoli che potrebbe correre suo figlio.

Ecco che Dio, come un buon Padre, vede nel cuore di Giuseppe il suo timore e comprende che questo suo figlio ha bisogno di un incoraggiamento; attende che si addormenti e si presenta a lui tramite un angelo che lo consiglia e lo rinfranca nel cuore. Assicurandogli che la sua casa è veramente quella di Nazareth e di andarvi ad abitare senza paura.

Cosa ci può insegnare questo passaggio evangelico? Cosa ci induce a pensare? Questo brano di Matteo è indicativo per comprendere meglio il cuore di Dio, la sua indole, il suo animo e…il suo carattere.

Sappiamo che Dio pretende solo una cosa dall’uomo: la fede. La fede della creatura per il proprio Creatore è la chiave che apre il cuore di Dio stesso. Senza la fede non esiste dialogo perché nonostante Dio sia alla porta di ogni cuore quelle porte senza fede sono porte chiuse. Fede che poi non è altro che fedeltà a Dio, amicizia e confidenza il Lui che è il Principio di ogni cosa. Ma ad un tratto ecco che Giuseppe questa amicizia con Dio, questa sua fedeltà che mai aveva visto tentennamenti di sorta, diventa fragile ed insicura. Come può un uomo come Giuseppe, marito di Maria e padre di Gesù, perdere questa confidenza in Dio?

Egli può nel momento stesso in cui vede che nell’osservare i comandi di Dio potrebbe esserci un pericolo stesso per Dio stesso. Il timore di Giuseppe è causato dal troppo amore per Gesù: ecco la sua mancanza di fede. Nel suo animo si sovrappongono tante domande e tanti dubbi che gli fanno oscurare quella luce che aveva sempre avuto come fedele compagna di viaggio. Dio comprende ed interviene perché conosce ciò che tormenta il cuore di Giuseppe e corre in suo aiuto, lo soccorre nel momento del vero bisogno.

Possiamo dire con tutta onestà questa verità: Dio non abbandona mai nessuno e più ancora non abbandona chi a Lui si è sempre affidato.

Colui che cammina sulle vie della Luce avrà sempre, per stella polare, lo Spirito di Dio che lo guida e lo protegge dalle oscurità del mondo. Giuseppe era caduto in una di queste oscurità causate dagli affanni quotidiani, dalle sue paure, dai suoi timori.

Il Signore si rese nuovamente presente nella sua vita per ricondurlo su quella via, stretta ma gloriosa, che suo figlio Gesù molti anni dopo andrà a predicare.

Per le stesse vie della Palestina.