Dialogo? I cristiani d’Europa soffrono di «meaculpismo»

Intervista al gesuita Samir Khalil

 

Il dialogo? Una necessità dettata dalla storia, ma che va costruito senza mettere tra parentesi le rispettive identità. In un’Europa che ha perso la memoria delle radici crescono i complessi d’inferiorità, una sorta di «meaculpismo» che impedisce di capire i cambiamenti che la crescita dell’Islam può produrre nel tessuto sociale. Parola di Samir Khalil Samir, egiziano, gesuita, docente all’Università Saint Joseph di Beirut e al Pontificio istituto orientale di Roma, autore di centinaia di saggi sui reciproci influssi tra cultura islamica e cristiana. Ma soprattutto, come tiene a sottolineare dal Libano, «arabo e cristiano: la dimostrazione vivente che è sbagliato identificare il mondo arabo con l’Islam, e che anzi proprio dalla nostra esperienza di minoranza in Medio Oriente può venire qualche utile insegnamento all’Europa che sta imparando a convivere con milioni di immigrati musulmani».

 

Perché parla di «meaculpismo» dell’Occidente nei confronti del mondo musulmano?

L’epoca coloniale  ha lasciato in eredità una cattiva coscienza legata alla preoccupazione di avere inquinato le radici storiche e culturali delle nazioni che erano state dominate, impedendo o ritardando un presunto autosviluppo in campo economico e politico. Un complesso di colpevolezza ce trae origine dall’errata sovrapposizione tra civiltà occidentale e cristianesimo, come se la Chiesa fosse responsabile degli errori commessi dai governi europei nel Terzo Mondo. Ma al fondo di questo equivoco c’è la crisi di identità dell’Europa, dove tutto viene messo in discussione in nome di un relativismo che finisce per penalizzare il cristianesimo e favorisce le cosiddette “novità culturali”: le spiritualità orientali, il New Age e anche la religione islamica vissuta come qualcosa di “esotico”. L’Europa ha dimenticato le sue origini ed è come se si vergognasse del suo presente diventando incapace di costruire un futuro. Esattamente il contrario di quello che Giovanni Paolo II chiede con insistenza: essere fieri delle proprie radici e a partire da questo costruire una convivenza tra culture diverse.

 

La presenza in Europa di milioni di immigrati provenienti da Paesi di cultura musulmana è una chance o può diventare un pericolo per la civiltà europea?

Molto dipenderà dalla possibilità di realizzare un’effettiva integrazione, in cui il rispetto delle loro specificità non metta in discussione i fondamenti su cui l’Europa ha costruito la sua storia. Vivendo in emigrazione, milioni di arabo-musulmani hanno imparato ad apprezzare la democrazia, il pluralismo, i diritti umani, la centralità della persona. E l’accoglienza ricevuta nelle strutture gestite dal volontariato ha contribuito a sfatare pregiudizi sul cristianesimo e la Chiesa, ancora molto radicati nei Paesi di origine – e questo è l’obiettivo più interessante – in Europa i musulmani possono apprezzare la positività tra religione e Stato, capire che la laicità non è l’anticamera dell’ateismo ma la possibilità di costruire una società che non discrimina sulla base dell’appartenenza religiosa, ma mette al centro la persona e i suoi diritti.

 

Il timore di una progressiva penetrazione islamica attraverso il canale dell’immigrazione è una teoria o una preoccupazione fondata?

Secondo alcuni esponenti islamici la tolleranza e la libertà di cui si gode in Europa rappresentano una chance per la diffusione dell’Islam, e in effetti qualcuno lavora per una “reislamizzazione” in chiave politico-radicale degli immigrati che vengono nei vostri Paesi per motivi fondamentalmente economici. Molto dipenderà dalle componenti che prevarranno nelle comunità in emigrazione.

 

Quale ruolo possono svolgere in queste dinamiche le moschee, che si vanno moltiplicando anche in Italia?

Chiariamo innanzitutto che la moschea non è una “chiesa musulmana”. Oltre che luogo di preghiera è un centro di aggregazione dove si insegna l’arabo e il Corano e che assume una forte valenza sociale e spesso politica. C’è chi sostiene che le moschee permettano un maggiore controllo sociale delle comunità, che siano un antidoto alla ghettizzazione dei musulmani e un argine all’infiltrazione degli elementi più radicali, ma è difficile formulare un giudizio univoco: dipende dalle intenzioni di chi le gestisce. Non è un caso che in molti Paesi certe moschee vengono presidiate dalla polizia per prevenire disordino all’uscita della preghiera.

 

Quali strade intravede  per un dialogo costruttivo tra cristiani e musulmani nel contesto italiano?

Chiarito che il dialogo è una  necessità dettata dalla vicinanza in cui cristiani e musulmani si trovano in seguito ai flussi migratori, credo che esso debba essere “esigente” e rispettare alcune condizioni senza le quali rischia di essere anonimo e improduttivo. Deve esserci da ambo le parti una forte carica di autenticità: presentare solo una parte della propria fede per paura di offendere, di deludere, o di dividere – come spesso fanno molti cristiani che vivono un complesso di inferiorità – è come dire una menzogna, e può confermare l’interlocutore musulmano nella sua convinzione che in fondo il cristiano è un credente che non ha ancora terminato il cammino per raggiungere la piena verità, che si troverebbe appunto nel Corano. Da parte cristiana è importante testimoniare che fede e modernità possono camminare assieme, che la democrazia non è nemica della religione, che il principio di cittadinanza porta in sé anche quello della tolleranza e della tutela delle minoranze, senza per questo sconfinare in un multiculturalismo anonimo e indifferenziato che può diventare la premessa per la moltiplicazione di ghetti anziché favorire una reale integrazione. E se tutto questo diventerà patrimonio dei musulmani che vivono in Italia, col tempo potrebbero portare un influsso benefico nei paesi di provenienza. Mi permetta di aggiungere che da parte dello Stato ci vorrebbe più coraggio nei rapporti diplomatici con certi Paesi dove i cristiani vivono in condizione di emarginazione sociale e patiscono discriminazioni, anche se gli affari che si concludono con quei Paesi fruttano fiumi di dollari alla vostra economia.

Articolo pubblicato da Avvenire il 28 marzo 1999

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