La canonizzazione dei santi lungo i secoli

Nella teologia cattolica i concetti di santo e di santità hanno un significato e una storia del tutto speciali. Nei primi secoli del cristianesimo santo designava qualsiasi battezzato in quanto puro e separato da ciò che è impuro e profano; come già il popolo ebraico si diceva santo rispetto a tutti gli altri popoli perché eletto da Dio, secondo i suoi sapientissimi disegni, a portare la salvezza a tutto il mondo. In seguito l’appellativo venne limitato a quei cristiani i quali, dopo aver trascorso una vita di virtù, godono della felicità eterna. Infine, divenne il titolo particolare di quelli ai quali la Chiesa rende pubblici onori in terra.

Il culto dei martiri

La Chiesa cattolica, fin dalle origini, considerò il martirio come massima espressione della fede e suprema prova dell’amore. Venerò quindi coloro che furono uccisi a causa del Vangelo come i più intimi amici di Dio e i più potenti intercessori presso di Lui. Soffrire e morire in testimonianza della divinità di Gesù Cristo costituisce per un cristiano il più grande titolo di gloria (cf Mt 5,11).
Il fatto è una prova apologetica che il cristianesimo è l’unica religione vera. Non per nulla Tertulliano ammoniva i pagani: “Più voi ci mietete con la persecuzione, più noi cresciamo, perché il sangue dei martiri è seme fecondo di nuovi cristiani”. Pascal († 1662) scriveva a distanza di tanti secoli: “Io credo volentieri ad una fede i cui testimoni si lasciano ammazzare”.
Un po’ ovunque, già dal secolo III, si formarono raccolte di Acta o relazioni stenografate del processo a condanna dei cristiani, redatte da notai, che diedero origine ai più antichi Martirologi. Essi attestano, assieme alla liturgia, all’epigrafia, all’arte cimiteriale, con quale rispetto i cristiani ricordassero i loro fratelli, defunti in pace, ovvero in Cristo, e con quale trasporto tributassero ai martiri un culto speciale di dulìa. Il giorno in cui ricorreva l’anniversario del loro martirio – detto dies natalis cioè nascita al cielo – i fedeli si radunavano attorno alla tomba del martire per la gioiosa celebrazione liturgica della sua memoria e di quella di altri martiri, per attingere forza e coraggio a seguirne l’esempio.
Così leggiamo nella lettera che i cristiani di Smirne scrissero riguardo al martirio del loro vescovo San Policarpo († 156). Sul sepolcro del martire, costruito sovente a forma di arcosolio (arco di trionfo), veniva celebrata la Messa, alla quale faceva seguito l’agape fraterna a beneficio dei poveri. Su di esso sorgeva sovente una cappella o una sontuosa basilica, come si verificò a Roma per gli apostoli Pietro e Paolo, Lorenzo, Sebastiano, Agnese, Cecilia, Susanna, ecc.
Con la pace concessa alla Chiesa (313) dall’imperatore Costantino il Grande († 337), la venerazione per i martiri si diffuse ovunque.

Dalle catacombe alle chiese

L’uso orientale della traslazione o divisione delle reliquie fu imitato anche in Occidente moltiplicandosi così i centri del loro culto. Dal secolo V al secolo XI ebbero luogo molte traslazioni di corpi di martiri, sia per arricchirne le chiese e sia per metterli al sicuro dalle invasioni barbariche e dai saccheggi dei saraceni.
Il culto dei martiri e la fede nella loro intercessione sono confermati dalle invocazioni scritte sulle loro tombe, dal canone della Messa, dai graffiti, dai panegirici recitati in loro onore, dal desiderio di molti fedeli di venire sepolti presso la tomba di un martire. Il culto solenne e liturgico dei martiri era il frutto di una spontanea e logica evoluzione che si fondava sulla notorietà del martirio e sulla evidente somiglianza del defunto con Cristo.
La liturgia attuale continua l’antichissima tradizione, venerando e festeggiando i martiri di ogni tempo e di ogni luogo. Lo storico dell’antichità romana, Teodoro Mommsen († 1903), fa notare, molto giustamente, che in tutta la lunga storia della conversione dei pagani, noi cerchiamo invano qualche solenne figura di martire delle credenze pagane. Dare testimonianza mediante il martirio della propria fede è un tipico frutto del cristianesimo.

Le canonizzazioni vescovili

Le persecuzioni contro la Chiesa non erano ancora terminate quando i fedeli cominciarono a venerare i confessori, cioè quei cristiani deferiti all’autorità civile per la loro fede, ma che, per varie circostanze, o non avevano subito il martirio, o vi erano sopravvissuti. Così capitò per Dionigi di Milano († 359), Eusebio di Vercelli († 371), Atanasio di
Alessandria († 373), Melezio d’Antiochia († 381), Giovanni Crisostomo († 407).
Dopo la pace costantiniana, nella Chiesa di Dio prese grande sviluppo la pratica dell’ascetismo e del monachesimo. Sant’Atanasio, durante i suoi esili, fece conoscere ovunque Sant’Antonio abate († 356), di cui aveva scritto la vita. Egli lo aveva equiparato ai martiri antichi non per l’effusione del sangue, ma per il costante sforzo che si era imposto nella lotta contro i demoni e nell’acquisto della perfezione (Vita, c. 47). Allora fu introdotto l’uso, diventato poi universale, di chiamare confessori tutte quelle persone che non avevano avuto da soffrire per la fede o comunque per l’idea cristiana, ma di queste avevano reso testimonianza con la vita di penitenza e di preghiera. Godettero di simile venerazione grandi asceti e famosi monaci come Ilarione († 372), Paolo di Tebe († 381), Simeone lo stilita († 459) e zelanti vescovi come Basilio il Grande († 379), Gregorio Nazianzeno († 390) e Gregorio Nisseno († 400). Presso le loro tombe sorsero sovente santuari che attiravano turbe di pellegrini; le loro reliquie furono venerate e ricercate; l’anniversario della loro morte veniva celebrato liturgicamente con grande solennità.
Dal secolo V al secolo IX parecchi santi non-martiri furono accolti nei calendari romani ed ebbero nella Città eterna i loro oratori e le loro chiese con annessi i monasteri. Questo culto in gran parte fu favorito dai Papi di origine non romana, dai monaci emigrati dall’Oriente all’Occidente, dallo scambio di reliquie e dalla diffusione delle Passiones o racconti delle sofferenze subite dai martiri o dai confessori, narrate molto sovente con l’ingenuo gusto del meraviglioso.

La costruzione dell’Europa

Fra i secoli VI e X, mentre l’Oriente si distaccava sempre più dall’Occidente, la dissoluzione dell’Impero romano e l’immigrazione dei popoli barbarici, con la relativa necessità di convertirli alla fede cattolica, posero la Chiesa di fronte a compiti nuovi e ardui.
È l’epoca dei grandi vescovi, dei monaci missionari, dei re convertiti che finiscono persino nel chiostro, delle regine e principesse fondatrici di monasteri e chiese e poi esse stesse badesse o monache, degli eremiti e dei pellegrini; un mondo in fermento e in movimento, con profondi contrasti fra violenza e santità, in mezzo a popoli giovani, di forte immaginativa, entusiasti della nuova fede, ammiratori degli eroi della carità e della illibatezza evangelica.
In questo periodo, oltre una rifioritura del culto dei santi martiri, nascono un po’ ovunque nuovi culti di santi: bastava al popolo spesso la fama di vita penitente, la fondazione di un monastero con le sue benefiche conseguenze, una grande beneficenza verso i poveri, talvolta una morte violenta, anche se non sempre per stretto motivo di fede, e soprattutto la fama di miracoli, per far nascere un nuovo culto: voce popolare di santa vita, e credito di miracoli sono i due punti di partenza per questi culti dell’alto medio evo.
Le grandi chiese considerarono ordinariamente i loro fondatori e primi vescovi come altrettanti santi; lo stesso vale per le figure di grandi abati. In tutti i casi se ne raccolgono le memorie, se ne scrivono le leggende senza troppe preoccupazioni di critica; i calendari e i martirologi di quei secoli si arricchiscono con sempre nuovi nomi, nelle chiese si moltiplicano gli altari e il numero delle feste aumenta rapidamente. Di tanto in tanto occorreva reprimere anche facili abusi...

Verso l’uniformità

Dalle molteplici notizie, risulta che si stava formando in questi secoli una prassi più o meno uniforme, attraverso la quale veniva autorizzato un nuovo culto. La partenza rimane sempre la fama pubblica, la vox populi, che subito dopo la morte del servo di Dio correva alla tomba, ne invocava l’intercessione e ne proclamava l’effetto taumaturgico.
In occasione di un sinodo diocesano, alla presenza del vescovo, si leggeva una vita del defunto e soprattutto la storia dei miracoli (primissimo nucleo dei futuri processi) e in seguito all’avvenuta approvazione, si procedeva all’esumazione del corpo per dargli una sepoltura più onorevole: la elevatio.
Sovente, seguiva un altro passo: la translatio, cioè la nuova deposizione del corpo santo davanti o accanto ad un altare o addirittura sotto o sopra l’altare, il quale prendeva il nome dal santo ivi venerato; anzi, alle volte la stessa chiesa era ampliata o ricostruita e dedicata precisamente al santo elevato o traslato.
Dall’elevazione o traslazione in poi veniva celebrata regolarmente la festa liturgica, spesso con grande solennità, non solo nella località dove sorgeva l’altare o la chiesa, ma in tutta la diocesi, la regione, la provincia, o in tutta la famiglia religiosa.

Guardando a Roma

Per più di cinque o sei secoli (secc. VI-XII), la canonizzazione vescovile era la canonizzazione normale e unica in uso nella Chiesa latina. Accanto ad essa, la canonizzazione papale crebbe molto lentamente e ci volle molto tempo e molto lavoro dottrinale e canonistico prima che essa riuscisse a soppiantare la canonizzazione medioevale ordinaria, compiuta dai vescovi...
Il trapasso dalla prassi della canonizzazione vescovile alla canonizzazione papale è quasi impercettibile agli inizi. Questa, in un primo tempo, appare piuttosto casuale, e certamente non era intesa come un atto supremo e valevole per la Chiesa universale. Ma è chiaro che una canonizzazione fatta dal Papa aveva una maggiore autorità; e perciò in un secondo tempo le richieste di autorizzazione papali di culto crebbero sempre più. Ma la procedura è la stessa come nella canonizzazione vescovile, e nella maggioranza dei casi, il Papa si limita a dare il suo consenso, mentre fuori, sul luogo, si procede in seguito alla solita solenne elevazione e inaugurazione del culto. I viaggi dei pontefici nei secoli XI e XII diedero ad essi occasione di procedere a tali elevazioni in persona. A poco a poco, la canonizzazione papale prese maggiore consistenza e valore canonico; si forma una procedura più rigida, e finalmente essa divenne la canonizzazione esclusiva e unicamente legittima.

Le canonizzazioni papali

I Papi hanno provveduto all’allestimento delle cause di beatificazione e canonizzazione mediante la Sacra Congregazione dei Riti, istituita da Sisto V nel 1588 con la costituzione Immensa Aeterni Dei.
Nel 1969, questa Congregazione è stata divisa in due da Paolo VI: in Congregazione per le cause dei Santi e in Congregazione per il culto divino. La procedura nelle cause di beatificazione e canonizzazione fu ristrutturata il 19 marzo 1969 con il motu proprio di Paolo VI Sanctitas clarior, e la costituzione apostolica Divinus perfectionis magister del 25 gennaio 1983, di Giovanni Paolo II. I due processi, finora in uso, quello diocesano e quello apostolico per provare l’esistenza della fama di martirio o di santità, vengono unificati in una sola inchiesta istruttoria, condotta dal vescovo, la cui autorità ordinaria demandata viene ora confermata ed elevata da quella apostolica delegata. La canonizzazione papale è un atto o sentenza definitiva con cui il Sommo Pontefice decreta che un servo di Dio, precedentemente beatificato, venga iscritto nel catalogo dei Santi e si veneri nella Chiesa universale con un culto di dulìa.

Una delle note proprie della Chiesa cattolica è quella della santità. Santo è infatti il fondatore di essa, santa ne è la dottrina, santo il fine che persegue, santi i membri che la compongono in virtù del battesimo di acqua, di sangue o di desiderio. Giudice di questa santità è soltanto il Papa. Il diritto di dichiarare chi debba essere ritenuto e onorato come santo spetta soltanto a lui. Secondo la quasi unanimità dei teologi la canonizzazione dei Santi impegna l’infallibilità pontificia. Non è concepibile, teologicamente parlando, che il Papa possa fare onorare come santo, qualcuno che non avesse realmente già raggiunto la gloria del Paradiso. A parte la considerazione che il Sommo Pontefice nell’esercizio del supremo magistero è illuminato e assistito dallo Spirito Santo, dobbiamo riconoscere che sono talmente minuziose le investigazioni, gli studi, gli accertamenti compiuti dai competenti sulla vita, le opere, gli scritti e le virtù dei servi di Dio, che è praticamente impossibile l’errore nelle canonizzazioni. Del resto, prima che il beato venga solennemente dichiarato santo, si richiede che ottenga da Dio il compimento di miracoli, i quali saranno esaminati oltre che da medici e chirurghi nominati d’ufficio, da tre o più riunioni dei cardinali e dei consultori facenti parte della Sacra Congregazione per le cause dei Santi, l’ultima delle quali è presieduta dal Papa.

I tre Concistori

Una volta che sono stati approvati i miracoli ed è stato promulgato il decreto nel quale è stabilito che si può procedere con sicurezza alla canonizzazione, la questione viene esaminata in tre Concistori consecutivi:

1) Il Concistoro segreto, in cui i cardinali residenti in Roma, muniti di documenti riguardanti la vita del beato e gli atti della causa, rispondono al Sommo Pontefice: Placet o Non placet.

2) Il Concistoro pubblico, solennissimo, cui prendono parte anche i vescovi che si trovano a Roma e gli ambasciatori delle nazioni cattoliche, accreditati presso la Santa Sede. Uno degli avvocati concistoriali espone la vita e i miracoli del beato e ne chiede la canonizzazione. Il segretario delle Lettere latine gli risponde in nome del Papa; egli esorta i presenti a implorare i lumi divini con i digiuni e le preghiere, prima che i Cardinali e i Vescovi abbiano manifestato il loro proposito.

3) A tale scopo è indetto il Concistoro semipubblico al quale, oltre ai Cardinali e ai Vescovi residenti in Roma, sono invitati anche gli Abati nullius, perché, dopo aver preso in considerazione il compendio della vita del beato e i relativi atti, diano il loro suffragio. Quest’ultimo concistoro si apre e poi si chiude con una breve allocuzione del Papa che annunzia il giorno in cui, nella Basilica di San Pietro, compirà, secondo il solenne cerimoniale prescritto, l’atto della canonizzazione. Da quel momento il Santo novello potrà essere venerato in tutta la Chiesa con la celebrazione di Messe, con la costruzione di chiese e di altari in suo onore, e potrà essere raffigurato con attorno al capo l’aureola.

La prima canonizzazione papale storicamente sicura è quella che eseguì Giovanni XV il 31 gennaio 993, durante il sinodo celebrato al Laterano, riguardo a Sant’Ulderico, vescovo di Augusta. Molti sono persuasi che i Santi canonizzati siano migliaia e migliaia. La realtà è molto diversa poiché la santità vera, consumata, eroica è molto rara.

Fino al 1990 i Santi canonizzati in modo formale ed equipollente dai Sommi Pontefici sono circa 544,

di cui 123 italiani,
96 vietnamiti,
93 sud coreani,
91 francesi,
61 spagnoli,
54 inglesi e gallesi,
22 ugandesi,
20 olandesi,
17 giapponesi,
15 tedeschi,
8 irlandesi,
7 polacchi,
4 portoghesi,
2 belgi, 2 svizzeri, ecc.

I Santi canonizzati, provenienti da famiglie nobili, sono un centinaio. Un bel numero se si considera quanto sia difficile rinunciare alle ricchezze per amore del Regno dei Cieli.

Le donne canonizzate sono appena una ottantina.

Dalle statistiche risulta che, dal 1860 al 1890, Pio IX ha elevato alla gloria degli altari 52 persone; Leone XIII 18; Pio X 5; Benedetto XV 2; Pio XI 33; Pio XII 33; Giovanni XXIII 11; Paolo VI 83; Giovanni Paolo II almeno 482.

Che cosa fecero i Santi

Tutti coloro che sono giunti agli onori degli altari hanno vissuto alla perfezione i consigli evangelici, e hanno praticato in grado eroico tutte le virtù, in modo speciale la fede, la speranza e la carità. Ciascuno di essi si distinse in qualche virtù particolare; tutti però si rassomigliano in tre aspetti fondamentali della vita ascetico-mistica:

1) Anzitutto i Santi furono tutti uomini di continua orazione. Essi hanno capito alla perfezione e praticato l’esortazione di S. Paolo: Perseverate assiduamente nella preghiera, e vigilate in essa con azioni di grazia (Col 4,2). Per attendervi, molti rinunciavano al sollievo corporale. Vivevano abitualmente immersi in Dio come il pesce nell’acqua.

2) Tutti i Santi si sono conformati alla volontà di Dio e hanno sopportato con pazienza non solo le croci della vita. Come San Paolo, anch’essi hanno sentito l’incoercibile necessità di dare compimento nella propria carne a ciò che manca alle tribolazioni di Cristo a vantaggio del suo corpo, che è la Chiesa (Col 1,24), mossi a ciò dallo Spirito Santo e sostenuti dalla sua grazia senza la quale non è possibile persistere in tante penitenze.

3) Infine, i Santi hanno nutrito tutti un grande amore per i poveri, i malati, gli orfani, gli emarginati della società, i peccatori e hanno cercato di soccorrerli in tutte le maniere possibili.

Verità e leggenda

Aveva ragione quindi San Francesco di Sales di esortare monsignor Andrea Frémyot, arcivescovo di Bourges, di servirsi nella predicazione degli esempi tratti dalla vita dei Santi, scrivendogli il 5 ottobre del 1604: “Che cosa sono le vite dei Santi, se non il Vangelo messo in pratica? Eppure, in questi tempi di contestazione e di critica, tanti dicono di non credere a quello che di meraviglioso viene narrato nelle vite dei Santi. A questi ipercritici ha già risposto 900 anni or sono San Bartolomeo il Giovane († 1065) il quale, nel prologo della vita di San Nilo di Rossano, suo padre spirituale e maestro, così scrive: A dire il vero in questi ultimi tempi... non si trova chi ami questo genere di narrazioni, e tanto meno che ne faccia diligente e amoroso studio; anzi, al contrario, vi sono molti che le mettono in derisione, che ne provano fastidio; giacché costoro alle antiche storie dei Santi non credono assolutamente, e alle recenti negano fede”.
C’è un serio motivo per dubitare dei fatti straordinari che si sono verificati nella vita di tanti Santi? No, sia perché tali fatti sono più che sufficientemente documentati dai contemporanei, e sia perché i medesimi fenomeni soprannaturali si sono verificati in uomini e donne vissuti in secoli e luoghi diversi.

Ad esempio, se le persecuzioni da parte del diavolo sono state possibili nella vita di San Giovanni M. Vianney, di San Giovanni Bosco, di Santa Gemma Galgani, perché attribuire a una pura invenzione di Atanasio quelle subite da Sant’Antonio abate nel deserto? Altrettanto si dica dei miracoli operati in vita dai Santi.

Perché considerare come leggende i portenti che Egli continua ad operare nel corso della storia per mezzo dei suoi servi più fedeli, ai quali ha affidato compiti straordinari a beneficio della Chiesa e dell’umanità? È pacifico che molte volte gli scrittori delle vite dei Santi si sono lasciati prendere la mano nell’esaltazione del loro eroe dipingendolo con colori irreali, eccessivamente distaccato dal suo ambiente e dai suoi difetti. Tuttavia chi sa leggere, non troverà difficoltà a discernere quanto in essi è leggendario o frutto di fantasia, da quello che è invece storico e frutto della grazia di Dio.

Tutti i secoli, per quanto burrascosi, ebbero i loro Santi, provenienti da tutte le categorie sociali. Il Concilio Vaticano II afferma nella Costituzione Dogmatica Lumen Gentium che tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità (n. 39), alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità (n. 40, b).

Insegna ancora il Concilio che nei vari generi di vita e nei vari uffici un’unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adoranti in spirito e verità Dio Padre, seguono Cristo povero, umile e carico della croce per meritare di essere partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità (n. 41). Queste verità sono state messe in pratica alla lettera da quanti sono stati elevati all’onore degli altari. Aveva ragione, quindi, Santa Brigida di dire ai suoi figli spirituali: "Dopo la Bibbia nulla vi stia più a cuore delle vite dei Santi".

Dobbiamo conoscerli e imitarli

Gli stessi concetti sono ribaditi da Giovanni Paolo II nei discorsi che fa al popolo di Dio in occasione della glorificazione di Beati e di Santi. Nel mese di maggio 1980, disse a Lisieux durante la sua visita alla tomba di Santa Teresa di Gesù Bambino:

«I Santi non invecchiano mai, essi non cadono in prescrizione. Essi restano continuamente i testimoni della giovinezza della Chiesa. Essi non diventano mai personaggi del passato, uomini e donne di ieri. Al contrario: essi sono sempre gli uomini e le donne di domani, gli uomini dell’avvenire evangelico dell’uomo e della Chiesa, i testimoni del mondo futuro».

Nel discorso che Giovanni Paolo II tenne a Lucca il 23-9-1989 ai giovani nel corso della sua visita pastorale, tra l’altro disse:

«I Santi, che in ogni epoca della storia hanno fatto risplendere nel mondo un riflesso della luce di Dio, sono i testimoni visibili della santità misteriosa della Chiesa. Questa vostra terra, carissimi giovani, è stata percorsa, anche in tempi recenti, da Santi a voi familiari. Per conoscere in profondità la Chiesa è a loro che dovete guardare! E non soltanto ai Santi canonizzati, ma anche a tutti i Santi nascosti, anonimi, che hanno cercato di calare il Vangelo nella ferialità dei loro doveri quotidiani. Essi esprimono la Chiesa nella sua verità più intima; e, al tempo stesso, essi salvano la Chiesa dalla mediocrità, la riformano dal di dentro, la sollecitano ad essere sempre più ciò che deve essere, la Sposa di Cristo senza macchia né ruga (cf Ef 5,27)».

Guido Pettinati

Tratto dalla rivista "Maria Ausiliatrice", ottobre e novembre 2004

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