AMBROGIO FOGAR


Articolo del: 02/07/2001


 

Entri e ti meravigli. Difficile immaginare, salendo le scale, che in una mansarda - la mansarda di un radioamatore attrezzatissimo - possa esservi la vita di un uomo. Successi e insuccessi. Gioie e dolori. Molti dolori. Perché la vita di Ambrogio Fogar è costellata di dolori, di peripezie, affrontate - va detto - con grande coraggio. Avventure impossibili, come l’ultima che sta vivendo a centinaia di chilometri da qui, a Milano, a 61 anni. Vive grazie alle macchine: uno stimolatore elettronico gli permette di respirare. Ben altre immagini.

Quelle che ho davanti, in questa bella casa di via Paisiello, a Fucecchio (Firenze), mi prospettano, senza fronzoli, senza alchimie, il Fogar esploratore, il Fogar navigatore sul catamarano, il Fogar del Surprise, il Fogar alla guida della slitta nell’Antartide, il Fogar della zattera. Sono oggetti che vedo, intaccati dal tempo e dalle intemperie, ma custoditi con amore, quasi con venerazione. Eppoi mumerosi nastri-video registrati, articoli, lettere, filmati, fotografie e altro materiale originale servito a Fogar nel corso delle sue imprese. I libri scritti.

E’ la casa di Benito Bartolucci. Ambrogio Fogar ha voluto che fosse l’amico, l’amico fraterno Benito Bartolucci a conservare tutto a Fucecchio, dove è stato più e più volte. Un amico al quale pensa durante un’impresa, e registra una lettera-confessione. Le parole di autorimprovero per un lungo silenzio tra loro si mischiano allo sciabordio dell’acqua. “Tu sei uno che mi dà il senso della sicurezza...”. “Spero che fin quando vivremo potremo mantenere questo bel rapporto”. Un amico al quale affida la figlia, quando pensa di essere ormai alla fine, dopo il naufragio del Surprise, avvenuto il 19 gennaio 1978, per ricordarglielo come padre e uomo. E in non migliori mani, Fogar, avrebbe potuto mettere quel che è il risultato del suo impegno di uomo votato all’avventura . Due persone così diverse: Fogar milanese, estroverso; Bartolucci toscano, riservato.

Sa tutto, Bartolucci. E’ preciso nel raccontare fatti, nel rammentare luoghi e date. Fogar parla di lui nel suo ultimo libro (“Solo. La forza di vivere”), apparso nell’ottobre 1997.

Bartolucci ricorda il loro primo incontro. Un incontro di voce. Perché conosce, per prima, la voce del navigatore, un giorno, per radio, sulla frequenza di radioamatore (15-BNT). E’ il luglio 1974. Con lo sloop Surprise, Fogar si trova nell’Oceano Indiano. E’ impegnato nel giro del mondo da Est a Ovest (partenza e arrivo a Castiglione della Pescaia), in senso contrario ai venti e alle correnti, impresa di pochi e per pochi. E’ partito il 1° novembre 1973, arriverà il 7 dicembre 1974, dopo aver percorso 37.000 miglia. E Fogar parla di Bartolucci così: L’ho sempre chiamato per nome, Benito, perché il cognome dava l’impressione di creare una pellicola invisibile tra noi due. Per mesi e mesi una voce senza volto. Mi ha preso una notte, a metà dell’Oceano Indiano, e poi tutti i giorni, fin quasi all’arrivo a Castiglione della Pescaia, il filo invisibile che ci collegava non si è più spezzato. Benito faceva delle levatacce alle ore più impensabili nel profondo della notte. Si alzava per rubare al cielo il mio filo di voce. Ricordo che una volta, dopo le solite informazioni sulla mia posizione, sulle condizioni del tempo spesso tempestoso - come spesso era tempestosa la mia anima - si aprì in confidenze private che riguardavano il suo rapporto con la famiglia e la sua fede in Dio. Divenne un’abitudine non abbandonare più questa anonima complicità che arricchiva, ne sono sicuro, tutti e due”. Ma il 7 dicembre 1974 finiscono di essere due voci e possono guardarsi in faccia, a Castiglione della Pescaia. Nasce un’amicizia inossidabile, fatta di alti e bassi, come tutte le vere amicizie. Benito Bartolucci pronto a rimproverare Fogar, un po’ impulsivo, un po’ egoista, comunque sempre leale e onesto.

Nel 1976, quando è in navigazione con il catamarano Spirit of Surprise, nell’OSTAR, Fogar parla a Bartolucci attraverso un piccolo registratore. E a lui pensa, per primo, nell’accingersi a scrivere numerose lettere quando, con l’amico Mauro Mancini, è sulla zattera di salvataggio, il futuro nero dopo il naufragio del Surprise, nel gennaio 1978. Una storia dolorosa, che a vent’anni di distanza dal tragico epilogo pesa come un macigno. E la ricorrenza, ricordata da alcuni giornali con ampi servizi, non ha fatto altro che rinfocolare polemiche. Bartolucci ha scritto a chi ha rivisitato la vicenda con un occhio solo. Ma non ha avuto alcuna soddisfazione. Anche Fogar ha scritto, ottenendo il silenzio. E’ chiaro che lì, di fronte a tutti, c’è la morte di Mauro Mancini, il giornalista toscano andato con Fogar.

Bartolucci era amico anche di lui, al punto che il 31 dicembre 1977, il giornalista maremmano gli scrive: “Caro Benito, allora parto anch’io. Spero che le nostre comunicazioni siano buone. Volevo dirti che ho lasciato il tuo numero di telefono a mia moglie, che si chiama Roberta e abita a Firenze (...) e anche a una mia vecchia zia che mi ha fatto da seconda mamma e abita a Grosseto. Caso mai ti telefonassero e magari ti dessero noia, porta pazienza... in nome di Fogar. Per i giornali non credo che telefoneranno. Quando torno verso la metà di febbraio organizzeremo i servizi veri e propri”.

Bartolucci si commuove e si arrabbia. Soffre . Soffre per la morte di Mancini e per il fatto che continuino a ritenerne responsabile Fogar. Accuse infamanti. Prima lo avrebbe indotto a partire, forzandolo. Poi, una volta recuperati dopo 74 giorni trascorsi nella zattera, non avrebbe capito le vere condizioni di salute del giornalista, dimagrito di ben 40 chili, e - senza che fosse necessario - avrebbe costretto il capitano della Master Stefanos, il greco Hohannis Kukunaris, a cambiare rotta. Infine, avrebbe comunicato che andava tutto bene.

No. Fogar ha reagito con una lettera ai giornali, ignorata. Con questo contenuto, nella sostanze: sono affermazioni superficiali, chi le ha scritte è in malafede, non si è documentato, bastava leggere “La zattera”.

Mancini parte da protagonista, per sua libera scelta. Ci sono prove inoppugnabili. C’è un suo articolo uscito su “Mare 2000” a dimostrare la voglia d’imbarcarsi, “dividendo con Fogar sogni e spirito d’avventura”, di conoscere l’Oceano. Scrive: “Parto con Fogar, lo accompagno da Buenos Aires a Ushuaia, le acque di Capo Horn. Anzi, spero di vederlo e di fotografarlo, questo benedetto scoglio. Ambrogio me l’ha promesso. Mi ha detto: se guadagniamo un giorno nella discesa dell’Argentina andiamo a fare due bordi sotto. Lo capite, ci spero”.

C’è anche una lettera, lasciata da Mancini e indirizzata all’allora direttore del quotidiano per il quale lavorava, in cui le parole sono chiare: “Siamo stati affondati dalle orche al mattino di giovedì 19 gennaio e ormai da tre settimane vaghiamo per l’Oceano cibandoci di pochi grammi di grasso e bicchierini di acqua piovana. Il disastro non è imputabile a cause umane, ad errori. Ambrogio Fogar è stato un marinaio esemplare e un uomo molto coraggioso”. E ancora: “Desidero che il giornale tratti sempre Fogar con il rispetto e la dirittura morale con le quali si è comportato con me sulla zattera”.

Il 2 aprile, domenica, vengono tratti in salvo dal cargo greco. Mauro si riprende. Fogar gli dice: “Ciao, Mauro, ce l’abbiamo fatta”. E Mancini: “Ma cosa dici, questa è la barca dei sogni, sei morto anche tu”. E Fogar: “Ma no, Mauro, guarda le pareti, questa barca è vera. Sulla zattera non potevo darti niente, qui puoi chiedere qualunque cosa”. E Mancini: “Voglio un pezzo di cioccolata al latte”. E’ contento. Detta un fonogramma alla moglie. La nave cambia rotta e punta di nuovo su Rio de Janeiro, porto di partenza, perché Mancini ha bisogno di cure. Ma muore due giorni dopo. E allora la nave riprende il suo viaggio iniziale. Quindi, nessuna bugia, né comportamento scorretto da parte di Fogar.

“Continuare a farne un capro espiatorio per la morte di Mancini - osserva Bartolucci - non è soltanto ingiusto o ingeneroso. E’ come pugnalare alle spalle i ricordi pur belli, nella tragedia di quei giorni, un’amicizia che Mancini gli confermò sempre”.

E Fogar ha avuto modo di scrivere che lo ha incarico di portare un fascio di rose rosse a Mauro, ogni anno, nell’anniversario della morte. E ha sottolineato: “Con lui (Mauro) c’è sempre qualcosa di mio e viceversa. Sogno spesso la zattera e Mauro e i nostri discorsi di quei 74 giorni alla deriva”.

Dopo la “zattera”, per Fogar diventa tutto difficile. Esplodono polemiche anche nel 1983, per la sua avventura al Polo. Polemiche che appaiono provocatorie. Non c’è nulla di misterioso o di falso. Infatti, con una lettera inviata al direttore del “Corriere della Sera”, scritta dal pack il 2 aprile 1983, e fatta pervenire attraverso il pilota dell’aereo, lo informa che non è più “Un uomo e il suo cane al Polo Nord”, bensì “un uomo, il cane e... il suo aereo al Polo Nord”. La lettera viene pubblicata il 25 aprile, una settimana prima dell’arrivo al Polo.

Nel momento difficile, ha pensato all’amico Benito. Il 2 aprile gli ha scritto: “E’ il viaggio più difficile, più terribile che un uomo possa ideare. E’ come scappare tutti i giorni dalle mani della morte camminando su un mare di cristallo che può rompersi proprio lì...”.

Poi l’incidente durante il ralley Parigi-Mosca-Pechino, insiene a Vismara. Un incidente banale, ma la speranza mai sopita, la sua voglia di continuare a vivere, di non arrendersi. Nel settembre 1996 - racconta Bartolucci - è venuto qui, a Fucecchio, a casa mia, e ha ricevuto visite di numerose persone che gli hanno dimostrato stima e affetto. Ci sentiamo spesso, per telefono, specie quando abbiamo da farci confidenze. Una frase mi ricorda spesso: chi non ha la speranza non è neppure sicuro del prossimo respiro.

Lo sguardo va ancora all’archivio, alla zattera che sembra così piccola, alla slitta, alla tenda, alle cassette registrate. Ce n’è per mettere su un piccolo museo, capace di raccontare trent’anni della vita di un navigatore solitario, importante al pari di Slocum, Dumas, Chichester, Rose, Blyth, Colas.

 

Tratto dal sito www.toscanalibri.it

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